Uno spettro si aggira per l’Italia della resurrezione: lo Stato Imprenditore

Articolo di Pietro Bullian: MSc in Economics presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 

In avvio della Fase (1.)2, i prescelti dal governo hanno tracciato la rotta da intraprendere per la ricostruzione dell’economia nazionale falcidiata dal lockdown: la prospettiva, fin qui, non sembra incoraggiante.

In un’intervista a La Repubblica del 26 aprile, la consulente del governo Mariana Mazzucato ha auspicato la transizione verso “uno Stato imprenditore che decida dove investire”. L’economista espone l’obiettivo ambizioso di attuare la rivoluzione della green economy, così come quello di colmare il digital divide nella popolazione e tra le varie aree del paese. Tutti obiettivi meritevoli, ma – come ben sappiamo – la via ad ogni forma di Stato coercitivo ed autoritario è da sempre lastricata delle migliori intenzioni.

Cerchiamo dunque di capire quali siano i passaggi più controversi di questo piano – e perché siano preoccupanti e allarmanti per il mondo delle imprese in questo grande momento di difficoltà.

L’intervista inizia spiegando “l’approccio ‘mission oriented’, cioè […] l’importanza di indirizzare gli investimenti pubblici e privati verso le aree che possano catalizzare innovazioni a livello intersettoriale […]. Si tratta di avere uno Stato con un ruolo di catalizzatore con l’obiettivo di intercettare e indirizzare gli investimenti.” L’obiettivo è lodevole, ma muove dal presupposto che le “aree che possano catalizzare innovazioni a livello intersettoriale” verranno identificate correttamente (e per primo) dallo Stato. In altre parole, si sottintende che lo Stato sappia, meglio (e in anticipo) rispetto agli imprenditori, dove vale la pena investire e dove si genererà più innovazione nel futuro. Una supposizione piuttosto audace.

Nel prosieguo dell’intervista – per fortuna – la consulente del governo non parla di distinzioni nel garantire quegli aiuti purtroppo vitali alle imprese in un periodo di emergenza senza precedenti come questo, ma instilla comunque il dubbio che le imprese saranno poi debitrici morali dello Stato, specificando: “per ora le si aiuta, mettendo fra le clausole che rispetteranno alcune regole, per esempio su come e cosa investire”. Dichiarazione preoccupante: pare, infatti, si vogliano “ricattare” le imprese che riceveranno aiuti, le quali dovranno impegnarsi in cambio a effettuare investimenti nei modi e nelle forme previste dallo Stato.

Ma quali sono questi modi e queste forme? L’economista del governo chiarisce che “il tavolo delle trattative per le condizionalità dovrà avere elementi diversi, a seconda delle specificità settoriali e del tipo di azienda”. La vicenda, a questo punto, si complica ulteriormente. La professoressa Mazzucato pare avanzare l’ipotesi che funzionari del governo (non meglio identificati) saranno chiamati a vagliare una ad una le proposte delle aziende, per poi stabilire – sempre con l’audace assunzione che la completezza informativa risieda nelle mani dei funzionari di Stato – la validità dei loro business plan (parliamo di quasi 4 milioni e mezzo di imprese attive in Italia). Uno scenario a dir poco preoccupante, che obbligherebbe tra l’altro il mondo delle imprese italiane, già in grande difficoltà, a sborsare milioni di euro in consulenze per la redazione delle proposte da presentare ai funzionari del governo.

Ironicamente, negli stessi giorni, il commissario per la gestione dell’emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri, ha fornito la prima prova della potenza di fuoco dello Stato Imprenditore, bloccando de facto il mercato italiano delle mascherine in un solo giorno. Le successive uscite del commissario sul tema hanno dimostrato il livello di considerazione dei meccanismi più basilari del mercato e della formazione dei prezzi; meccanismi che, apparentemente, il commissario non ritiene importanti, dal momento che ha in seguito specificato come – a suo avviso – “il mercato per questo tipo di beni non dovrebbe esistere”. Non si capisce perché, a questo punto, debba esistere un mercato per il pane, per l’acqua potabile, per la pasta e per una serie di altri beni cosiddetti “essenziali” – che tuttavia hanno, piaccia o meno al commissario, dei prezzi di mercato.

Il prezzo calmierato di vendita imposto, infatti, è stato considerato con riferimento al costo di produzione (marginale?) pre-emergenza, che non includeva tutti i costi di riconversione e ampliamento della produzione che le imprese impegnate nello sforzo di fornire milioni di mascherine al giorno hanno dovuto sostenere in questi mesi. Inoltre, l’immediata applicazione del calmiere non ha tenuto conto dei tempi di approvvigionamento; molti commercianti, infatti, hanno pagato le mascherine di cui si sono riforniti (sul mercato) molto più di quanto non dovrebbero ora incassare per la vendita. Il commissario si è premurato di specificare di aver “fissato il prezzo massimo di vendita, non un prezzo massimo di acquisto”, non chiarendo in un primo momento chi avrebbe dovuto sopportare la perdita data dalla differenza dei due prezzi, ovvero come sarebbe stata corretta la distorsione del mercato causata dall’ordinanza stessa.

Per usare un eufemismo, la prima prova dello Stato Imprenditore, che indirizza il mercato al servizio del bene comune, poteva andare meglio.

Tuttavia, al di là di facili ironie, ciò che tutti questi ragionamenti tradiscono è una base ideologica che non tiene in considerazione le più basilari dinamiche dell’economia di mercato in cui viviamo.

Sia per quanto riguarda il mercato delle mascherine, sia per quanto riguarda il mercato degli investimenti, l’assunzione a priori è che lo Stato conosca meglio del mercato (ovvero di tutti noi, produttori e consumatori) le dinamiche di formazione dei prezzi. In altre parole: che lo Stato sia in grado di valutare meglio del consumatore quanto sia opportuno pagare per un bene di consumo; che lo Stato sia altresì in grado di valutare meglio di un investitore quale sia il progetto di investimento migliore; infine, che lo Stato sia in grado di valutare meglio di un’impresa come poter rendere più efficiente il proprio processo produttivo. Questo “Stato che tutto sa e tutto vede” sarebbe, in altre parole, un pianificatore centrale.

I prezzi – lo si vede, ad esempio, nel mercato degli articoli firmati – altro non rappresentano che il valore che i soggetti (i consumatori) attribuiscono a degli oggetti. Questo valore si crea spontaneamente per tutti i beni in natura – inclusi i beni illegali, che, pur al di fuori di ogni regola e legge, sviluppano dei prezzi propri. Distruggere il meccanismo di formazione dei prezzi vuol dire attribuirsi la capacità di “indovinare” le preferenze di tutti gli agenti economici in ogni dato momento. Qualcuno pensa davvero che sia sensato? Ha mai funzionato storicamente?

Si tratta di un’impostazione pericolosa, intrinsecamente autoritaria, perché ha il fine ultimo di sostituire le preferenze degli individui con delle “preferenze di Stato” (ovverosia le preferenze dei suoi funzionari) nella sicura idea che siano necessariamente migliori e più funzionali al benessere collettivo. Lo stesso principio, mutatis mutandis, è stato applicato immancabilmente da tutti i regimi autoritari della storia, per tante e diverse vie, tutte lastricate di buone intenzioni che avrebbero dovuto (temporaneamente) sacrificare gli individui sull’altare del “bene comune”.

Nessuno pensa che le idee dei consulenti del governo si spingano a tanto. Tuttavia, è giusto mettere in guardia dalle buone intenzioni che, se mal indirizzate, possono avere conseguenze imprevedibili sulle nostre libertà ed il nostro benessere.

La spesa attraverso gli stimoli non fermerà le ricadute economiche del Coronavirus

Articolo tratto e tradotto da FEE.com (di Daniel J. Mitchell)

I “trenta denari” dell’economia keynesiana si ripresentano.

Il Coronavirus è una vera minaccia alla prosperità, almeno nel breve periodo, in gran parte perché sta causando una contrazione del commercio globale.

Il lato positivo di quest’aria di tempesta è che il Presidente Donald Trump potrebbe imparare che il commercio è in realtà buono e non cattivo.

Ma quando le nubi nere si addensano è probabile che ci scappi anche il fulmine, o perlomeno lo è quando la combriccola di Washington decide che è tempo di un’altra dose di economia Keynesiana.

  • Keynesismo fiscale – il governo prende in prestito del denaro dai mercati finanziari e quindi i politici redistribuiscono i fondi con la speranza che i destinatari spendano di più.
  • Keynesismo monetario – il governo crea più denaro con la speranza che dei tassi di interesse più bassi stimolino così i prestiti ed i destinatari spendano di più.

I critici avvertono, correttamente, che le politiche keynesiane sono sbagliate. Una maggiore spesa può essere una conseguenza della crescita economica,  ma non il fattore scatenante della crescita economica.

Ma i “trenta denari” dell’economia keynesiana continuano a riapparire perché offrono ai politici una scusa buona per comprare voti.

Il Wall Street Journal ha espresso la sua opinione sui rischi di un maggiore stimolo monetario keynesiano.

“La Federal Reserve è diventata il medico di base per qualsiasi cosa affligga l’economia degli Stati Uniti, e martedì il medico finanziario ha applicato quello che spera sarà un balsamo monetario contro il danno economico del Coronavirus. […] La teoria alla base del taglio dei tassi sembra essere che un’azione aggressiva sia il modo migliore per inviare un forte messaggio di stabilità ai mercati. […] ciò ci rende scettici. […] Nessuno prenderà quel volo per Tokyo perché la Fed improvvisamente paga meno sulle riserve in eccesso. […] Il grande errore della Fed dopo l’11 settembre è stato quello di mantenere i tassi all’1% o quasi per troppo tempo anche dopo che il taglio delle tasse del 2003 aveva fatto bisbigliare l’economia. Ecco come i semi del boom immobiliare e del tracollo furono seminati.”

E l’editoriale ha anche messo in guardia sugli ulteriori stimoli fiscali keynesiani.

Anche se un taglio fiscale temporaneo è il veicolo utilizzato per scaricare denaro nell’economia.

“Essendo l’anno delle elezioni, la classe politica sta anche iniziando a chiedere più “stimoli” fiscali. … Se il Signor Trump si innamorasse di questo, avrebbe abbracciato la Joe Bidenomics. Abbiamo già provato l’idea di una riduzione temporanea dell’imposta sui salari nell’era della lenta crescita sotto Obama, riducendo la quota del prelievo sui lavoratori dal 6,2% al 4,2% dello stipendio. Questa è entrata in vigore a gennaio del 2011, ma il tasso di disoccupazione è rimasto al di sopra del 9% per la maggior parte del resto di quell’anno. Le riduzioni fiscali temporanee mettono più denaro nelle tasche delle persone e possono dare una spinta a breve termine sulle statistiche del PIL. Ma l’effetto di crescita svanisce rapidamente perché non cambia in modo permanente sia l’incentivo a risparmiare che ad investire.”

Due punti veramente eccellenti.

Solo i tagli fiscali permanenti sul versante dell’offerta incoraggiano una maggiore prosperità, mentre così non fanno i tagli fiscali temporanei in stile keynesiano.

Data la divisione politica a Washington, non è chiaro se i politici saranno d’accordo su come perseguire il keynesismo fiscale.

Ma ciò non significa che possiamo rilassarci. Trump è un fan della politica monetaria keynesiana e la Federal Reserve è suscettibile alle pressioni politiche.

Non aspettatevi buoni risultati dagli intrallazzi monetari. George Melloan ha scritto  sull’inefficacia dello stimolo monetario l’anno scorso, ben prima che il Coronavirus diventasse un problema.

“I più recenti promotori degli “stimoli” monetari sono stati Barack Obama ed i presidenti della Fed che hanno servito durante la sua presidenza, Ben Bernanke e Janet Yellen. […] i presidenti dell’era Obama hanno cercato di stimolare la crescita “mantenendo la politica del tasso zero per sei anni e mezzo pur in un periodo di ripresa economica, e più che quadruplicando le dimensioni del bilancio della Fed”. E cosa abbiamo dimostrato? Dopo il crollo del 2009, la crescita economica tra il 2010 e il 2017 è stata in media del 2,2%, ben al di sotto della media storica del 3%, nonostante le drastiche misure della Fed. I bassi tassi d’interesse stimolano certamente i prestiti, ma non è la stessa cosa di una crescita economica. In effetti può spesso frenare la crescita. […] Infatti il Congresso si è fatto l’idea che il credito sia in qualche modo gratuito, quindi ora gente come Elizabeth Warren e Bernie Sanders pensano che lo Zio Sam possa prendere in prestito da un pozzo senza fondo. I prestiti facili non solo gonfiano i costi di servizio del debito, ma incoraggiano anche i cattivi investimenti. […] quando Donald Trump martella la Fed per avere dei tassi più bassi, […] ha ingaggiato una battaglia contro i mulini a vento.

Poiché la Federal Reserve ha già ridotto i tassi d’interesse, quel cavallo keynesiano ha già lasciato il fienile.

Detto questo, non aspettatevi buoni risultati. L’economia keynesiana ha un track record molto scarso (se il keynesismo fiscale ed il keynesismo monetario fossero una ricetta per il successo, il Giappone sarebbe in forte espansione).

Quindi speriamo che i politici non mettano una sella sul cavallo fiscale keynesiano.

Se Trump sente di dover fare qualcosa, ho classificato le sue opzioni (*) l’estate scorsa.

La linea di fondo è che una buona politica a breve termine è anche una buona politica a lungo termine.

(*) ecco alcune opzioni da adottare secondo Daniel J. Mitchell

  1. Eliminare i dazi – I vari dazi di Trump hanno reso l’economia americana meno efficiente e meno produttiva. E il Presidente ha il potere unilaterale di annullare le sue politiche protezionistiche e distruttive.
  2. Indicizzare i guadagni in conto capitale – L’argomento morale per utilizzare l’autorità di regolamentazione per indicizzare guadagni in conto capitale all’inflazione è altrettanto forte quanto l’argomento economico, per quanto mi riguarda. Le potenziali cause legali potrebbero creare incertezza e quindi ammutolire l’impatto benefico.
  3. Riduzione delle aliquote fiscali sui salari – Sebbene sia sempre una buona idea ridurre le aliquote fiscali marginali sul lavoro, i politici stanno solo prendendo in considerazione una riduzione temporanea, che ridurrebbe notevolmente qualsiasi potenziale beneficio.
  4. Non fare nulla – Ad oggi, in base alle dichiarazioni di Trump, questa parrebbe essere l’opzione più probabile. E dal momento che “fare qualcosa” a Washington spesso significa più potere per il governo, c’è una forte argomentazione in sostegno del “non fare nulla”.
  5. Infrastrutture – Temo che Trump si unirà ai Democratici (e ad alcuni Repubblicani “orientati alla carne di maiale”) per mettere in atto un pacchetto di spese per i trasporti.
  6. Easy Money dalla Fed – Trump spinge sulla Federal Reserve nella speranza che la banca centrale utilizzi i suoi poteri per ridurre artificialmente i tassi d’interesse. Il Presidente, a quanto pare, pensa che la politica monetaria keynesiana farà ruggire l’economia. In realtà, l’intervento della Fed di solito è la causa dell’instabilità economica.

Coronavirus, “caccia al disinfettante”. Prezzi alle stelle per mascherine e prodotti igienizzanti.

In seguito all’ansia generalizzata derivante dai primi casi di CoronaVirus COVID19 nel nostro Paese, gli Italiani hanno preso d’assalto i supermercati e cercato di acquistare quanti più beni di prima necessità possibili, per anticipare una possibile quarantena.

Inoltre, gli acquisti di prodotti igienizzanti come i gel per le mani o le mascherine per evitare il contagi sono aumentati, provocando un conseguente aumento dei prezzi. Tale incremento ha portato numerose persone a lamentarsi di un presunto sciacallaggio da parte dei produttori e distributori di questi beni, che dovrebbero evitare di lucrare in queste situazioni complicate.

Ma è davvero così? L’aumento del prezzo dei gel igienizzanti e delle mascherine è derivante da un comportamento disdicevole dei produttori oppure è semplicemente un naturale effetto del mercato che tenta di allocare più efficacemente le risorse scarse?

L’aumento della domanda di un bene spinge il prezzo del bene stesso ad aumentare. L’extra profitto derivante aumento del prezzo segnala alle aziende produttrici che è arrivato il momento di produrre una quantità maggiore del bene e gli fornisce le risorse e gli incentivi per farlo. Nel breve periodo l’aumento del prezzo ridurrà le vendite, in modo da evitare la totale scomparsa del bene dal mercato. L’allocazione è efficiente in quanto il bene verrà acquistato solo da chi davvero lo desidera, ma ovviamente non equa, in quanto consumatori con maggiore disponibilità di denaro potranno acquistarlo più facilmente. Ma le aziende nel frattempo, grazie al segnale mandatogli dal prezzo, avranno aumentato la produzione, e presto saranno in grado di offrire la giusta quantità di bene, portando il prezzo a diminuire nuovamente.

Se questo vi sembra comunque non equo e corretto, pensiamo alle alternative.

Lo Stato potrebbe imporre un “calmiere”, quindi scegliendo un ‘tetto massimo’ per il prezzo del bene, o un ‘razionamento’, scegliendo quindi la quantità massima acquistabile da ogni consumatore. In entrambi i casi, le aziende non riceveranno nessun segnale dal mercato che li spinga ad aumentare la produzione o extra-profitti che l’incentivino a farlo. Così facendo, l’allocazione del bene non sarebbe né equa né efficiente, in quanto vigerebbe la regola del “chi prima arriva meglio alloggia”. Cioè, i primi ad acquistare il bene ne avrebbero a sufficienza, mentre quelli che si sono “mossi in ritardo” rimarrebbero a mani vuote. Anzi, ad un certo punto, il bene potrebbe scomparire del tutto dal mercato.

Per chi non credesse a ciò che abbiamo scritto su, dovrebbe sovvenire facilmente alla memoria l’immediata analogia con il Capitolo XII de “I Promessi Sposi”, quello in cui Alessandro Manzoni ci narra delle conseguenze dell’introduzione di un calmiere del prezzo del pane in seguito a una scarsità di offerta derivante da un raccolto insufficiente. Il Manzoni, già nel XIX secolo aveva capito le conseguenze nefaste della manomissione del sistema dei prezzi nel circuito del mercato.

Purtroppo molti oggi stentano a capire (o fanno finta di non capire) questi semplici meccanismi.

Perché i Poveri devono vivere in Case Brutte?

Uno dei tanti temi che ha più riempito i notiziari in questi ultimi tempi è quello dell’edilizia residenziale pubblica, ovvero edilizia popolare, e cioè quelle operazioni di edilizia che vedono l’amministrazione pubblica offrire ai cittadini delle soluzioni abitative a basso costo.

Nel giro di una settimana si sono susseguiti due fatti eclatanti: ovvero, le proteste da parte dei residenti del quartiere di Casal Bruciato a Roma, cui si è aggiunta una mobilitazione da parte di un gruppo fascistoide, contro una famiglia di origine rom a cui era stato assegnato, attraverso un bando del Comune, un alloggio popolare; ed il gesto del card. Konrad Krajvesky – elemosiniere del Santo Padre (ufficio della Santa Sede che ha il compito di esercitare la carità verso i poveri a nome del Papa) – che ha rischiato la propria incolumità per riattaccare l’elettricità in un edificio occupato (e quindi pieno di abusivi).

Per parlare di questo tema pensiamo si debba partire da due punti fondamentali:

Il primo è che la proprietà privata è sacra ed inviolabile; il secondo è che l’edilizia popolare pubblica, in ultima analisi, nonostante le buone intenzioni che vi stanno dietro, porta comunque alla creazione di profondi disagi e tensioni sociali. Un altro punto che, in realtà, bisognerebbe tenere a mente, è che, come diceva Milton Friedman, “non esistono pasti gratis”.

Andiamo ora, perciò, a vedere perché l’edilizia popolare “non s’ha da fare” e cosa può essere fatto, invece, per aiutare chi non ha i mezzi economici per garantirsi un tetto sopra la testa: che è poi il fine ultimo di tutte le proposte politiche che ascoltiamo, ma che, sovente, non risolvono mai alcun problema.

C’è chi dice che la Casa – come migliaia di altre cose, oramai – sia un “Diritto”. Questa affermazione, tuttavia, è errata.

Non sta scritto da nessuna parte, nemmeno nella nostra Costituzione, “la più bella del mondo” (sic!), che debba essere fornito un alloggio ai meno abbienti. Ci ha però pensato la nostra Corte Costituzionale a riempire quella mancanza, da Paese del Socialismo reale quale siamo. Ed infatti, possiamo leggere un profluvio di belle e giuste affermazioni (per carità): “… è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione” (Sent. n. 49/1987); oppure “Il diritto all’abitazione rientra, infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (Sent. n. 217/1988); “Il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (Sent. n. 119/1999), e via discorrendo…

Tutte cose giuste e vere, bellissime… che si sono tradotte in? Nulla, assolutamente il nulla. Nessuno di questi richiami ad diritto alla casa è servito, nella realtà, a concretizzare un vantaggio palpabile per chi la casa la chiedeva. Questo ci dovrebbe far capire quanto i “diritti” siano bellissimi scritti su carta, ma poi, alla fine del paragrafo, li devi anche concretizzare… e se non si sa come concretizzarli, è un bel problema!

Quindi la Casa è un diritto? E se sì, si tratta di una richiesta sensata ed eticamente da appoggiare?

La risposta è No! Se si accetta che chiunque abbia diritto ad un’abitazione, significa dire non solo che si caricano gli altri, che una casa ce l’hanno e se la sono pure pagata (che strano!) di pagare per chi, invece, non può (o non vuole!) per ragioni di giustizia sociale, ma si dovrebbe accettare anche – dato che le risorse sono scarse e non si possono costruire case popolari ad libitum – che in caso di neccessità la proprietà privata possa essere violata per una qualunque ragione – e che quindi il modo migliore per garantirsi una casa sia di occupare una abusivamente o, peggio – come alcuni suggeriscono – che un Ente dello Stato possa espropiarla a chi la tiene (magari abbandonata) per darla a chi ne ha bisogno, sempre per ragioni di giustizia sociale. Una situazione da regime comunista puro.

Ma, se la casa non te la paghi e, anzi, o te la costruisce qualcuno che soldi propri non ce ne rimette o te la occupi pure, si arriva al punto che chiunque possa dichiarare di aver diritto all’alloggio che più gli si confà. E quindi perchè non occupare abusivamente la terrazza Campari a Milano? Perché tanto chi beve lì lo spritz può andarselo a bere anche da un’altra parte, tanto i mezzi economici li ha… e poi vuoi mettere con la vista Madonnina?

Torniamo, dunque, per un attimo, all’affermazione per cui “non esistono pasti gratis”. Infatti, nel corso dei decenni la cultura del “Welfare State” ha instillato nelle menti di molte generazioni l’idea che esso sia una sorta di “cornucopia”, per cui non c’è bisogno di preoccuparsi per il futuro (degli altri, ovviamente). Un esempio sono proprio i progetti di edilizia residenziale pubblica, che sono stati spesso presentati come “gratuiti”. Ovviamente lo scopo non era quello di dare una casa (come se non esistesse o fosse mai esistito un mercato edilizio fiorente, sopratutto se parliamo degli anni ’50-’60-’70 – quando si inaugurò la stagione dello ‘Stato impresario’), ma quello di creare un blocco di persone a carico, dipendenti dalla mano pubblica e per questo a lei grati.

Ma nesuno si è preoccupato di dire loro in che modo lo Stato soddisfacesse i loro bisogni: con le risorse sottratte ad altri. Anzi, istituzioni, cariche dello Stato, politici, sindacati, partiti – nel corso dei decenni – si sono preoccupati di nutrire queste persone con belle parole, con un sacco di “diritti”, in modo che fossero loro riconoscenti e che in cambio non facessero mancare il proprio sostegno elettorale… ma chi poi ha pagato per tutto questo?

Queste “istituzioni” hanno avuto poca comprensione economica, non sanno che la produzione deve necessariamente precedere il consumo. Invece lo Stato ha incoraggiato questa filosofia di pensiero – in modo che gli elettori percepissero un senso di euforia immediato – e quindi infischiandosene del futuro. Eh sì, perché va ricordato che, per quanto buone le intenzioni possano essere, ogni intervento pubblico va considerato come un modo per consolidare, o spostare verso di sé, il consenso dell’elettorato.

Il risultato di tutto questo? Basta farsi un giro nelle nostre periferie… (alla meglio) belli i casermoni? i palazzoni fatiscenti? (alla peggio) le vele di Scampia? il Corviale? gli ZEN?… già perchè se tanto mi da tanto, fai già che per molti è comunque meglio che sia lo Stato a costruire le case – seppur brutte, piccole e malfamate dove piazzarci i poveri, “però almeno avranno un tetto sulla testa” – piuttosto che ad occuparsene sia il Mercato. E tutto questo anche a costo di lasciare tutto, specie nei contesti più degradati, a criminalità ed abusivismo, in poche parole – qui sì – alla vera “legge del più forte”.

Ma, oltre ai luoghi fatiscenti e malfamati, si aggiunge il problema che, con l’attuale sistema dei bandi, capita molto spesso che una famiglia riceva un appartamento perché soddisfa i requisiti e poi resti lì vita natural durante, anche quando il loro bisogno è cessato e altri ne avrebbero più diritto.

Al netto di tutto ciò, c’è ancora chi persevera con l’idea per cui, in realtà, l’edilizia pubblica nel nostro paese sia di dimensioni minori rispetto ad altri paesi (l’esempio della Francia si fa di solito) e che, anzi, servirebbe che lo Stato s’impegnasse a costruire di più! A questi signori basterebbe ricordare che il fallimento dell’edilizia pubblica è sotto gli occhi di tutti, oltre al fatto che quartieri dell’edilizia popolare costano uno sproposito alla collettività, offrono abitazioni di bassa qualità, creano autentici «ghetti» e diventano occasione per occupazioni illegittime, oltre al fatto che ci sono migliaia gli appartamenti vuoti a causa della cattiva gestione degli enti pubblici (altro che espropriare gli immobili sfitti o abbandonati dei privati!)

Ma cosa fare, ovviamente, se talune famiglie non possono permettersi gli affitti o le rate di un mutuo?

Innanzitutto, ricordarsi che è proprio l’intervento pubblico a tenere alti, o alzare, questi prezzi. Ci sono tanti modi in cui questo viene fatto: dalla semplice inflazione, dovuta alla politica monetaria (nel nostro caso decisa a livello europeo), ai divieti che non permettono all’offerta di incontrarsi con la domanda. In un mercato non regolato, infatti, nel momento in cui affitti e prezzi cominciano ad aumentare, i costruttori di case costruirebbero altri alloggi per soddisfare la crescente domanda. Noi, però, viviamo in società iper-regolate e il mercato immobiliare non è da meno.

Si potrebbe dunque eliminare del tutto l’edilizia popolare, permettendo di costruire abbastanza edifici in modo da incontrare la crescente domanda di alloggi: purtroppo non c’è la volontà politica per farlo; è più facile continuare a regalare “diritti” a spese dei contribuenti.

Altre soluzioni potrebbero essere la dismissione degli immobili pubblici, così da disporre di risorse da reinvestire in settori più remunerativi e destinarne i ricavi alle famiglie in difficoltà. Soldi invece che case. Questo sistema favorisce di più la famiglia bisognosa, che, ricevendo denaro per cercarsi autonomamente un’alloggio, può trovare un appartamento confacente alle proprie esigenze, laddove invece la gestione pubblica non è in grado.

Si pensi al diverso valore delle case popolari rispetto a quello di un appartamento offerto dal mercato privato (che a volte sono manufatti dal valore superiore – nei Comuni più virtuosi e fuori Città) o alle esigenze di una persona anziana o disabile, che potrebbe quindi scegliere un appartamento al pianterreno, piuttosto di accontentarsi di un posto offerto dal Comune, ma magari all’ultimo piano e senza il montascale. Per giunta, c’è il vantaggio – non trascurabile – che la famiglia bisognosa potrebbe cercare un’alloggio nel quartiere in cui ha gli affetti ed il lavoro, e non dovrebbe dunque trasferirsi laddove si sia liberato un appartamento offerto dal Comune. Da ultimo, ci libereremmo dai carrozzoni pubblicci (come l’ATER o l’ALER) pieni di debiti ed insolventi.

Interessante in questo senso anche la proposta dell’Istituto Liberale – L’individualista Feroce di istituire un “Buono Affitto” un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione, sotto forma di tiket (come il “buono scuola” o i “buoni pasto”), tenendo comunque presente la necessaria temporaneità del sostegno (due o tre anni) in modo da ridurre i costi a carico della collettività. Certamente, anche nell’erogazione di aiuti finanziari ci potrebbero essere degli abusi, ma è più facile disdire un bonifico che sgomberare un edificio.

L’ultimo motivo per chiedere l’eliminazione dei programmi di edilizia popolare è relativo ai disagi sociali che questi creano. Infatti, nel momento in cui concedi un “diritto” a qualcuno, tutti ritengono di poterne e doverne avere accesso.

Ed è per questo motivo che, per quanto noi riteniamo il comportamento di Casapound estremamente riprovevole, non ci si può sorprendere quando vediamo scene di questo tipo: è l’edilizia popolare in sé stessa che crea scontri tra chi è assegnatario di un alloggio e chi, invece, rimane fuori.

Per quanto riguarda, invece, il gesto dell’elemosiniere del Papa non bisogna chiedersi se sia legale o meno: non è attraverso la legge che dobbiamo interpretare quello che succede, ma attraverso il buon senso (che talvolta può anche tradursi in legge, ma non è chiaramente così nel caso dei programmi di edilizia pubblica). Il cardinale Krajvesky ha sbagliato, ma non per il fatto che abbia violato una qualche norma del codice penale, ma perchè: primo non è giusto usufruire di un servizio – qualunque esso sia – se non lo si paga; secondo, perchè i costi delle bollette evase e non pagate finisce comunque sulla “groppa” di chi le paga e le ha sempre pagate. Ancora una volta va ricordato che “non esistono pasti gratis”, e il cardinale si è fatto “bello e buono” con i soldi degli altri (poteva semplicemente accollarsi i debiti delle bollette non pagate, invece che scaricare i costi del suo gesto, ancora una volta, sulla collettività).

Insomma, i motivi per eliminare questi programmi sono tanti. Il problema dell’“housing affordability” può essere risolto solo tramite un processo di Mercato, con l’incontro di domanda e offerta… ma lo si deve lasciar lavorare.

Ci chiediamo, dunque, alla fine di questo discorso, se ci sarà mai la volontà politica di affrontare questo cambiamento, diminuendo il ruolo della politica e di leggi, piani e regolamenti, e presentando infine il conto dei tanti pasti scroccati a chi deve sempre e comunque pagare per tutti.

Fuori dal Salone

Dopo polemiche e dibattiti accesissimi durati per giorni alla fine la casa editrice Altaforte è stata esclusa dal Salone del Libro di Torino. Ma, oltre all’esclusione, come se non fosse già sufficiente, gli avvocati del Comune di Torino e della Regione Piemonte hanno presentato un esposto alla procura di Torino – che ha già aperto un’inchiesta – contro Francesco Polacchi, coordinatore di Casapound in Lombardia e fondatore della casa editrice, per denunciare le sue dichiarazioni sul fascismo (“Sono fascista e Mussolini è un grande statista italiano”), e sull’antifascismo, da lui ritenuto “il male di questo Paese“.

Comune e Regione hanno motivato la domanda di esclusione spiegando che la presenza di Altaforte al Salone stava causando un grave danno di immagine all’evento e alla Città e aveva anche reso impossibile una lezione agli studenti di Halina Birenbaum, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, che aveva annullato per protesta la sua presenza. Decisione di cui, Regione e Comune, hanno detto di assumersi la “piena responsabilità politica”.

E’ difficile parlare neutralmente di quanto successo perchè, non bisogna nascondersi dietro un dito, stiamo parlando dell’esclusione di una casa editrice che si rifà ad un movimento politico che sposa (e sposa lei stessa) apertamente idee fasciste: pertanto un moto di indignazione all’idea che una casa editrice così potesse prendere parte ad un esposizione, come tante altre, è comprensibile. Ma all’indignazione deve seguire poi la ragione.

La tentazione di voler censurare, limitare il più possibile la diffusione di ciò che non piace sentire per alcuni è molto forte di questi tempi… ed è pure possibile rivolgersi a delle amministrazioni pubbliche per chiedere ed ottenere un loro intervento, dato che queste sono ovunque e sono coinvolte in tutti gli aspetti del vivere sociale: tanto basta assumersi la “piena responsabilità politica”

Ma poi, domanda rivolta a tutti – liberali, individualisti, statalisti, collettivisti, insomma all’universo mondo: Siete contenti? Siete contenti di questo Stato che può intervenire, col pretesto dei patrocini (quindi i soldi di tutti) ad essere decisore di ultima istanza di chi sta dentro e chi sta fuori? Chi è conforme e chi è difforme? Siete contenti? E il prossimo passo?

Ecco perchè quando si proclamano i diritti, come quelli della libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, se poi si cominciano a fare i distinguo è la fine! Allora vale tutto! Vale tutto! A favore o contro chiunque!

Le varie motivazioni che si sono addotte per motivare l’esclusione della casa editrice non gradita sono tutte più o meno riconducibili ad un’unica giustificazione di base: il Paradosso di Popper, per il quale è lecita l’intolleranza nei confronti dell’intolleranza stessa, come condizione necessaria per la preservazione della società aperta.

Stano che gli appartenenti al mondo della cultura, che ruota attorno al Salone – che dunque hanno letto molto e che molto, per questo, dovrebbe sapere – abbiano offerto una lettura così misera e banale di Popper. Il filosofo ed epistemologo austriaco non ha mai inteso né che “si debbano sempre sopprimere le manifestazioni di filosofie intolleranti”, né offrire una facile giustificazione a chi, comunque intollerante (benché tale non si consideri), voglia ridurre al silenzio altri intolleranti (o che tali egli considera). Non solo, Popper ci offre anche dei limiti, e sostiene infatti che finché il contrasto con argomentazioni razionali è possibile, “la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni”.

Ed è infatti quello che è avvenuto. La campagna contro Altaforte non ha dato i risultati sperati, e non li ha dati perché non c’erano i presupposti indicati da Popper per giustificare una soppressione dell’intolleranza. Ed è finita esattamente come Popper avvertiva.

Ed ecco dimostrato empiricamente cosa accade quando pochi intolleranti (Wu Ming, ZeroCalcare, Carlo Ginzburg, Pif e altri – non che siano intolleranti in generale, ma in questa precisa occasione si sono comportati come tali) prendono il sopravvento sui più, tolleranti, per mezzo di amministrazioni pubbliche loro compiacenti, e riescono poi a dettare la linea e a prevalere. Non proprio un esempio di “società aperta” quindi.

Nemmeno una campagna pubblicitaria da milioni di euro avrebbe saputo portare tanta notorietà e prese di posizione favorevoli ad una piccola casa editrice che, detta brutalmente, nessuno conosceva o si filava e che era candidata a passare del tutto inosservata nel prosieguo della manifestazione.

Certamente siamo consapevoli che questa lettura di ciò che dice Popper non sia stata una semplice “svista”, ma un’interpretazione di comodo. Ma, in sintesi, se il Salone del Libro, cedendo alle richieste (leggasi “ricatti”: “non partecipo se…”) di pochi, ha voluto dare una dimostrazione di ciò che si deve fare per difendere la “società aperta”, nella quale fiorisce la democrazia, si può dire che sia riuscito a “cannare in pieno”, offrendoci invece un esempio di “società chiusa”, senza morale, dove prospera l’autoritarismo (in questo caso delle idee). Se poi pensiamo al “tema” scelto quest’anno (“La cultura non contempla frontiere o linee divisorie, la cultura i confini li salta. Supera divisioni, frantuma muri, balza dall’altra parte”) ciò fa ancora più impressione.

Discorso a parte merita la posizione di Halina Birenbaum che, avendo lei dovuto subire le persecuzioni di quegli stessi che Casapound oggi vorrebbe ri-valorizzare, certamente non avrebbe avuto piacere vedere chi nega che lei abbia subito quello che, nei fatti, ha dovuto subire (“Ho sofferto troppo per stare con persone che propagano idee per le quali ho perso la mia famiglia e l’infanzia”): e quindi non si può tacciare certamente la Birenbaum di essere intollerante.

Certo, noi non ce la sentiamo (pur comprendendo la sua situazione) comunque di giustificare l’espulsione di Altaforte, soprattutto per come la posizione della sopravvissuta di Auschwitz è stata usata, ovvero come pretesto da parte di due enti pubblici per allontanare un editore non gradito (in barba comunque ai principi costituzionali che si sono impegnati “a riconoscere e a promuovere”) e per come, poi, tale decisione abbia finito per risolversi a danno della stessa: il diffondersi del negazionismo dell’olocausto (terribile) va combattuto ed affrontato con argomentazioni razionali, diffondendo il più possibile la testimonianza e la memoria, che sono le armi più efficaci e temibili contro queste follie revisioniste, anti-storiche e anti-umane.

Ma laddove il dialogo e la dialettica hanno fallito, è riuscito (ancora una volta) il Mercato: in una battuta dell’editore Polacchi (“abbiamo fatto in quattro giorni il fatturato di quattro anni”) è riassunto il fallimento di chi, alzando il pugno per combattere battaglie non richieste da nessuno, si è arrogato il diritto di decidere per tutti. Infatti, benché alla fine sia stata esclusa da un Salone, non essendo questo Paese ancora giunto ad adottare un livello di censura così diffusa per i contenuti non graditi, è stato possibile acquistare comunque on-line (e anche alla Feltrinelli – che coerenza) le pubblicazioni di Altaforte che, da casa editrice sconosciuta, è salita ‘vento in poppa’ nelle classifiche delle vendite; inoltre, ora tutti la conoscono, e per di più, molti, che magari non la pensano come l’editore, hanno acquistato comunque le sue pubblicazioni “per solidarietà”.

Ed è da fare una riflessione obbligata su quanto quello che diciamo sia vero. Il Mercato, quanto più libero, la “mano invisibile”, sono tutte cose Vere e l’hanno potuto sperimentare anche chi, come Casapound&Friends, magari del Mercato, come lo intendiamo noi, non hanno una grande simpatia. Grazie alla singole libertà di chi ha cliccato “acquista articolo” hanno potuto beneficiare delle preferenze di molti, laddove invece, le preferenze di pochi avrebbero portato alla loro esclusione, all’impossibilità di far conoscere i propri prodotti, e, quindi, a raccogliere i frutti del proprio lavoro. E l’hanno sperimentata anche colore che, ebbri dal fatto di aver vinto una, piccola, “battaglia”, hanno poi perso la “guerra”, e hanno ottenuto l’esatto opposto di quello che avrebbero voluto.

E quella offerta dal Mercato è una libertà che premia anche chi non la riconosce: e forse, su questo, ci si dovrebbe pensare un pò su.

Game of Thrones mostra i problemi del potere centralizzato

La serie televisiva ci consente di vedere ciò che accade quando degli esseri umani, ovviamente imperfetti, si contendono lo scettro del comando in una situazione di vuoto di potere e quello che accade, poi, quando essi conseguono il loro obiettivo. In Game of Thrones si vede come nessun singolo personaggio sia adatto a sedere sul Trono di Spade, la cattedra del potere assoluto, così come, egualmente, nessun personaggio, o coalizione, sia adatto ad essere al vertice di un governo centralizzato. La conquista del trono, di volta in volta, da parte di ciascun personaggio, mostra il problema ciclico della politica quando ha a che fare con il potere centralizzato, cosa che, nel mondo reale, sia l’autoritarismo che il socialismo non sono riusciti ad affrontare.

Il problema del Male

È sufficiente scegliere uno qualunque dei personaggi dello show ed il problema della loro inadeguatezza diventa evidente. Iniziamo con degli esempi.

L’adolescente Joffrey Baratheon, che ha seduto sul trono per qualche stagione, era letteralmente un sadico.

Sua madre, Cersei Lannister, che sale al trono dopo la morte di tutti i suoi figli, non è certo migliore: la trappola esplosiva con l’alto fuoco, preparata al Tempio di Baelor, uccide tutti i suoi rivali ma, assieme, anche centinaia di innocenti (compreso, il suo ultimo figlio rimasto, Tommen, che si suicida per la perdita dell’amata, anch’essa nemica di Cercei). Cercei, inoltre, spinge il fratello Jamie Lannister, con il quale ha una relazione incestuosa, a buttare giù dalla torre il giovane Brandon Stark per averli scoperti, per caso.

Il principe Viserys Targaryen – alla morte del cui padre, il “Re folle”, dovette fuggire da Westeros e rinunciare al potere – accecato dall’arroganza e dalla brama di riconquistare il trono perduto, arrivò a promettere a sua sorella Daenerys che avrebbe consentito ad un intero esercito di abusarne se questo voleva dire riconquistare la sua legittima pretesa.

“Quando è posto in una posizione di assoluta autorità, ogni uomo o donna è soggetto alle stesse inclinazioni egoistiche che muovono ciascuno di Noi.”

Questi sono solo alcuni dei personaggi più crudeli e cattivi dello show, ma essi non sono i soli ad essere caratterizzati dalle iperboli tipiche dei tiranni. Nel corso della storia, quando anche altri personaggi assumono una posizione di assoluto potere, compiono anch’essi genocidi, assassinii e torture.

Le teorie sulla natura corruttrice del potere sono innumerevoli, ma rimane centrale per ciascuna l’imperfezione congenita dell’essere umano. Quando viene posto in una posizione di autorità, ogni uomo o donna è soggetto alle stesse inclinazioni egoistiche e alla paura di perdere il potere che ci contraddistinguono tutti. Questi difetti portano la anche la persona media ad intraprendere azioni di dubbia morale durante il corso della propria storia; ma quando il potere è centralizzato, la capacità di un tiranno di danneggiare gli altri diviene moltiplicata.

In breve, gli esseri umani sono imperfetti e, come possono mostrare altri esempi, anche gli uomini più virtuosi, alla fine, soccomberanno alla propria natura.

Jon Snow e il problema della Rappresentatività

Il “Re del Nord” è il protagonista centrale dello spettacolo ed il miglior candidato a seguire questa regola. Jon Snow agisce come il prototipo di eroe fantastico, un abile combattente ed un leader naturale. Possiamo dire che assomiglia ad un “politico ideale”. Combatte per i bisogni della sua gente e, stando alle sue parole, rifugge le prospettive del governo.

Nella sua provincia è un buon Signore, in grado di soddisfare la maggior parte delle richieste dei suoi sudditi. Ma il castello è piccolo, il suo popolo non è molto numeroso ed è disperso nelle vastità del Nord. Solo una minaccia imminente per il suo popolo, gli “Estranei”, lo mette a capo di un sistema centralizzato, seppur per la sopravvivenza. Diverso sarebbe se fosse stato seduto il Trono di Spade: sarebbero inevitabilmente sorti interessi molteplici e contrastanti e, nonostante il suo onore, Jon non sarebbe stato in grado di soddisfarli tutti.

Tornando al mondo reale, in “The Road to Serfdom”, Friedrich von Hayek scrive che in qualsiasi sistema centralizzato, “le opinioni di qualcuno dovranno decidere quali sono gli interessi più importanti”. In un piccolo Stato, in cui la cultura e le opinioni sono coerenti in tutto il territorio – come il Nord di Jon Snow – gli interessi contrastanti sono pochi.

Ma anche come Signore gli interessi personali di Jon entrano più volte in conflitto. Durante la Battaglia dei bastardi, ad esempio, il suo avversario Ramsey Bolton crea una sadica trappola per mettere Jon davanti ad una scelta: scegliere se salvare la vita di suo fratello o se rispettare un piano di battaglia ben congeniato. Pertanto, esattamente come Jon alla fine preferisce anteporre i bisogni della sua famiglia (i pochi) rispetto alle esigenze dei suoi alleati (i molti), allo stesso modo inevitabilmente i politici, in un sistema centralizzato, devono scegliere di privilegiare i bisogni di un gruppo o il bisogno di un altro a loro più prossimo. Gettatosi quindi in una decisione avventata, alla ceca, è solo per un intervento esterno ed inatteso, cioè l’arrivo dei Cavalieri della valle, che riesce a vincere la battaglia.

Al vertice di un governo, centrale come federale, tuttavia, è impossibile soddisfare una domanda senza calpestarne un’altra: i bisogni delle imprese rispetto alle preoccupazioni ambientali, l’equilibrio tra le preferenze educative di un gruppo culturale rispetto ad un altro, l’allocazione di fondi per le condizioni di svantaggio sociale più disparate. Sono tutte contrapposizioni che nessun governo unico centralizzato potrebbe gestire. Pertanto, come Jon ha preferito la famiglia piuttosto che i suoi alleati, i politici di un qualunque sistema centralizzato daranno priorità ai bisogni di un gruppo o di un singolo.

Daenerys e il problema dell’Autorità

Se Jon Snow è un “politico ideale”, Daenerys Targaryen è una “combattente per la libertà”. I suoi obiettivi sono nobili, come liberare la Terra dalla schiavitù o distruggere “la ruota” del potere a Westeros. A differenza di Jon Snow, rifugge dalle decisioni avventate e, salvo eccezioni, non decide senza prima essersi consultata con i suoi consiglieri. Tuttavia, non importa quanto siano nobili i suoi scopi, la sua inclinazione autoritaria è evidente.

Più volte, nel corso della serie, si affida alla forza distruttrice dei suoi draghi e al suo sempre più numeroso esercito per uccidere sì i potenti schiavisti, ma anche coloro che si rifiutano di inginocchiarsi ai suoi piedi.

Se nel Giulio Cesare di Shakespeare, mentre riflette sulla sua decisione di uccidere il sovrano, Bruto medita su come Cesare, una volta incoronato, avrebbe cambiato la sua natura, per Dany la domanda è: “cosa succede quando la schiavitù è stata abolita e lei – come Jon Snow – si ritrova di fronte a sfide eticamente ambigue?

Di volta in volta, in nome della libertà, ha bruciato vivi dei personaggi, comandato al suo esercito di macellare i nobili e di conquistare città. Ma anche di fronte alla questione, relativamente insignificante, se Jon Snow intenda o meno inginocchiarsi, ella gli ricorda, ancora una volta, dei suoi draghi. All’inizio della serie combatteva per i diritti individuali; nella sala del trono a Roccia del Drago, di fronte a sfide più complesse, la vediamo combattere invece per mantenere ed espandere il proprio potere.

La domanda che ci dobbiamo porre nel mondo reale è: “che cosa accade quando il potere centralizzato affronta questioni di Stato più piccole? Questioni come le prestazioni sociali, l’educazione o persino chi deve fare una torta?

Quindi, passando dal problema di rappresentatività ad uno di forza, una volta che la decisione è presa, la forza diventa lo strumento per raggiungere l’obiettivo.

Eddard Stark

Persino Ned Stark, il cui unico difetto apparente è la sua cieca dedizione all’onore, sarebbe incapace di governare. Forse vi sarebbe riuscito in un piccolo Stato (come il suo Nord) nel ruolo di un regnante quasi simbolico, rassegnato ad amministrare la giustizia e a dichiarare la guerra; tuttavia, se Ned Stark avesse tentato di gestire la politica o l’economia dei Sette Regni, si sarebbe presto trovato al di fuori della sue capacità.

Friedrich von Hayek ha affrontato spesso il problema posto dalla complessità. Nel suo saggio “The Use of Knowledge in Society”, scrive:

“È proprio perché ogni individuo sa poco e, in particolare, perché raramente sappiamo chi di noi sa, che è meglio che ci fidiamo degli sforzi indipendenti e competitivi di molti per indurre l’emersione di ciò che vorremmo, quando lo vediamo.”

Qualsiasi individuo, o anche un solo organo direttivo, è incapace di possedere le conoscenze necessarie per gestire un’intera società. Infatti, come non esiste un unico sistema di copertura, pubblica o privata, che possa soddisfare le diverse esigenze sanitarie di un’intera popolazione, non esiste un curriculum scolastico che istruisca adeguatamente ogni studente in una nazione variegata (per etnia, lingua, ecc…), non esistono sistemi di regolamentazione che, applicati in un Paese, possano proteggere in modo più efficace il consumatore, mantenendo al contempo la più completa libertà dell’industria di innovare e di produrre.

La Soluzione

Ci sono tre problemi quindi:

  1. Di fronte ad interessi contrastanti, un governo centralizzato dovrà favorire l’uno rispetto all’altro.
  2. Una volta presa la decisione, la forza diventerà l’unico strumento per raggiungere quell’obiettivo.
  3. Ma, anche in questo scenario ideale, qualsiasi governo centralizzato non sarebbe comunque in grado di prendere perfettamente ogni decisione e di agire in base ad ogni esigenza che si presenterà.

A questi tre problemi, un sistema capitalista può fornire delle risposte.

In risposta a questo ‘problema di comprensione’ Hayek fornisce la risposta in “The Road to Serfdom”, scrivendo che:

“Gli sforzi spontanei ed incontrollati degli individui [sono] in grado di produrre un ordine complesso di attività economiche.”

Con il processo decisionale esteso ad ogni individuo, sia acquirente che venditore, la popolazione può prendere collettivamente tutte le decisioni necessarie per raggiungere i fini ideali che si prefigge.

Per Dany, la domanda era: “Cosa succede quando la schiavitù viene abolita e lei, come Jon Snow, si ritrova di fronte a sfide eticamente ambigue?” Per quanto riguarda l’uso della forza, a differenza di Daenerys, quando il potere si estende ad innumerevoli produttori ed acquirenti, la Società inizia da sola a dirigere i propri obiettivi e le proprie preferenze; le persone possono “votare con il loro portafoglio” per sostenere un settore, oppure per chiuderlo, costringendo così le industrie a rimanere attente ai bisogni degli stessi consumatori.

I desideri conflittuali di Jon Snow non possono mai essere soddisfatti da uno Stato centralizzato. Tuttavia, laddove i piccoli organi di governo mantengono il potere, un sistema federalista può soddisfare meglio le richieste locali e culturalmente coerenti con (approssimativa) fedeltà.

Infine, il capitalismo non nega il problema del “male”, ma nel diffondere l’autorità ed il potere, offre sicuramente sufficienti controlli e bilanciamenti contro lo stesso.

Ci sono quattro problemi che ognuno dei personaggi che abbiamo citato pone: il problema del male, il problema degli interessi contrastanti, il problema della forza ed il problema della conoscenza.

Autoritarismo e Socialismo non saranno mai adatti a soddisfare tutti e quattro. Un sistema capitalista e di small government invece può.

Per una Pensione Felice

Libertà di scelta, concorrenza, competizione, mercato, sono alcuni tra i principi che dovrebbero l’agire politico di chi ritiene di essere un liberale (o liberista, o libertario, a voi la scelta dell’aggettivo che preferite). Concetti visti, troppo spesso, con diffidenza, sospetto e financo paura nel nostro Paese.

Frequentemente, lo Stato viene ritenuto l’unica possibilità per risolvere le difficoltà ed i problemi dei propri cittadini, e se ne auspica l’intervento come fosse il “Deus ex machina” delle tragedie greche. In realtà, le cose stanno in maniera diversa, spesso (parafrasando Ronald Reagan) lo Stato è la causa del problema ed il mercato la soluzione ad esso.

Un esempio chiaro e lampante proviene dal sistema pensionistico italiano di cui tutti ne riconoscono l’inefficienza e la non sostenibilità nel lungo periodo, ma nessuno è in grado di presentare delle proposte in grado di riformarlo in maniera radicale. Politicamente, il capitolo pensioni è uno dei più caldi e difficili da affrontare.

Negli ultimi 30 anni, nessun governo politico è riuscito a riformare il sistema pensionistico, lasciandone l’incombenza ai governi tecnici, costretti o ad aumentare l’età pensionabile, o il carico contributivo a capo al lavoratore o a diminuire l’importo delle pensioni per preservarne la sostenibilità. Questi interventi hanno creato disagi e malumori nella popolazione più anziana, che ha visto allontanarsi il traguardo della pensione, rafforzando ulteriormente lo scontro intergenerazionale che già dilaga in Italia. Scontro che si infiamma ulteriormente nel momento in cui i governi politici tentano di disfare tali interventi per compiacere una parte dell’elettorato.

Il sistema pensionistico italiano è – principale fonte di scontro tra giovani ed anziani – uno dei primi elementi di propaganda dei politici e, soprattutto, la prima e più importante fonte di spesa – e debito – dello Stato. La spesa per pensioni in Italia ha superato il 15% del PIL e viaggia, a vele spiegate, verso il 20%, risultando la prima voce di spesa, di gran lunga maggiore rispetto all’istruzione, alla sanità e alla protezione sociale.

Gli interventi “lacrime e sangue” che consistono in aumenti di età pensionabile o di contributi non hanno risolto il problema, ma solo posticipato il giorno del collasso del sistema. Bisogna tenere conto che, già oggi, i contributi previdenziali sono la principale componente del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo del lavoro pagato dalle imprese e il salario guadagnato dal lavoratore, ritenuto una delle principali cause dell’elevata disoccupazione in Italia. Auspicare un aumento degli stessi non sembra la migliore delle soluzioni per il lungo periodo.

In Italia viene utilizzato un sistema pensionistico a ripartizione, o “unfunded pension system” per usare i termini inglesi – che in questo caso ci vengono in aiuto per capirne meglio la natura. Perché “unfunded”? Diversamente da quanto viene fatto credere, il lavoratore che versa i contributi presso il monopolista statale INPS non sta creando un tesoretto da utilizzare per la sua futura vecchiaia ma, invero, per finanziare le pensioni attuali, cioè dei lavoratori attualmente in pensione.

Il sistema si regge su di un ‘patto intergenerazionale’ per cui i giovani lavoratori pagano i contributi che si tramutano in assegni per chi è già in pensione. Il sistema funziona in maniera ottimale, ed è in grado di offrire pensioni estremamente generose, fintanto che il tasso di crescita della popolazione rimane elevato. Le prime generazioni di pensionati sono quelle che più ci hanno guadagnato da questo meccanismo.

Ma la dinamica demografica che sta vivendo l’Italia da qualche decennio a questa parte, caratterizzata da un invecchiamento progressivo della popolazione, non rende più conveniente l’utilizzo di tale sistema.

All’inizio del secolo la quota di popolazione oltre i 65 anni rappresentava il 18,1% del totale e quella oltre gli 80 il 4%. Nel 2013 queste erano già passate rispettivamente al 21,2% e 6,3%. (fonte: “Rischi e proposte per il finanziamento del welfare italiano”; IBL). Le previsioni per il futuro non sono certo più rosee, l’ISTAT prevede un aumento della popolazione anziana del 47% entro il 2050 e nel 2065 la popolazione ultra 65enne sarà pari al 33%. Oggi il rapporto lavoratore pensionato è di 3 a 2, ma la previsione per il 2050 è di 1 a 1.

Come detto l’ammontare dell’assegno previdenziale dipende dalla quantità di contributi versati dal lavoratore in percentuale al suo salario. La principale componente che determina il salario è la produttività del lavoro. Altra nota dolente per il nostro Paese è che, secondo dati OCSE, ha il peggior dato per quanto riguarda l’aumento della stessa, secondo solo alla Grecia. Insomma, con una produttività stagnante, salari che non aumentano ed il progressivo aumento dell’età media la sostenibilità del nostro sistema pensionistico verrà messa a dura prova, e nuovi interventi a riguardo potrebbero inasprire il disagio sociale ed il conflitto intergenerazionale.

L’unica soluzione percorribile è quella di una “Rivoluzione Copernicana” del nostro sistema pensionistico, e cioè passare da un sistema “unfunded” ad uno “funded”, ovvero “a capitalizzazione”

In questo caso il lavoratore versa i contributi, che vengono accumulati in un fondo e serviranno poi interamente per pagare la propria pensione, eliminando dunque la necessità di un monopolista statale e stimolando la partecipazione ai fondi pensione, in concorrenza ed in competizione tra di loro per offrire la migliore soluzione al lavoratore. Inoltre, essi investirebbero la parte di contributi versati in attività finanziarie a basso rischio, determinando così un incremento reale di quanto accumulato nel proprio fondo a beneficio di tutti, cosa che non accade con l’INPS, che non investe o investe male, e gli incrementi sono solo quelli previsti dal governo a favore delle pensioni minime; in più, tali contributi, rimanendo nella gestione separata, rimarrebbero a riparo anche in caso di fallimento del proprio fondo. Invece oggi, se l’INPS dichiarasse “bancarotta”, per finanziare le erogazioni si dovrebbe ricorrere alla tassazione generale, con conseguente e sostanziale decurtazione del valore reale del proprio assegno.

In Cile questo sistema è già in vigore da circa 40 anni, e nessun governo si è mai sognato di tornare indietro, eliminando quanto di buono era stato fatto. In questi anni il rendimento medio dei conti di risparmio previdenziale è stato pari a circa il 10%.

L’OCSE, in uno studio del 2009 (“Reviews of labour market and social policies: Chile. The normalisation of Chile’s Pension system”. OECD) ha confermato il successo di tale riforma, indicando alcuni elementi particolarmente positivi tra cui: l’aver ristabilito la fiducia pubblica nel risparmio previdenziale; aver contribuito allo sviluppo del mercato finanziario e della crescita economica; ridotto la spesa pubblica attuale e futura del Paese.

Josè Pinera, principale artefice di tale riforma, ha affermato che

“La privatizzazione delle pensioni ha prodotto una radicale redistribuzione del potere dallo Stato alla società civile e, trasformando i lavoratori in proprietari a titolo personale del capitale complessivo del Paese, ha creato un’atmosfera politica e culturale più adeguata ad un mercato e ad una società effettivamente più liberi”.

Con questo sistema, che dovrebbe essere introdotto anche in Italia, ognuno avrebbe la possibilità di scegliere: ovvero sia l’ente a cui affidare i propri contributi, sia l’ammontare degli stessi. Non si sarebbe più costretti ad andare in pensione quando lo “permette” lo Stato e alle sue condizioni, ma ognuno deciderebbe per sé. 

Al netto degli evidenti vantaggi in termini di sostenibilità di spesa e debito nel lungo periodo, tale sistema aumenterebbe la libertà di scelta dei cittadini, consegnandogli le chiavi del proprio futuro, e togliendole dunque dalle mani di politici e burocrati. I politici non potrebbero più usare il denaro dei contribuenti per comprare il voto dei pensionati, inasprendo il conflitto tra generazioni ed il disagio sociale. 

La transizione tra l’attuale sistema ed uno a capitalizzazione non sarebbe ovviamente privo di costi e di facile implementazione, ma data l’attuale situazione e gli sviluppi futuri sembra opportuno fare un tentativo in questa direzione. Ricordandosi che qualsiasi intervento dello Stato vale finchè ci saranno dei soldi da spendere… ma quando finiranno? Solo un sistema basato sulla libertà di scelta del cittadino ed una sana concorrenza tra fondi pensione può risolvere l’annosa questione previdenziale del nostro Paese.

L’immotivata paura del dragone

“L’immotivata paura del dragone”. Condividiamo uno saggio del nostro Local Coordinator di Milano, Cosimo Melella pubblicato su #LeoniBlog.

A quanti propongono ‘policy’ volte a sbarrare la strada alle imprese asiatiche è opportuno ricordare che quando vengono meno le barriere che tengono divisi due paesi ne consegue un avvicinamento tra due culture che iniziano ad integrarsi. Sul piano del diritti, inoltre, vi è un rapporto molto netto tra lo sviluppo delle relazioni economiche e l’instaurazione di una società retta dal ‘rule of law’.

➡️ Leggi su Leoni Blog.it

Si riconosce il consumatore seriale da social network dal bisogno spasmodico di buttare un occhio sulle notizie del giorno e dalla necessità di commentarle pubblicamente per rendere edotte le masse del cyberspace della propria opinione. Ultimamente, ha destato parecchio rumore nell’interlink, portando ad un numero considerevole di post e articoli, la firma del memorandum tra il governo italiano e Pechino o gli incontri tra alcuni leader europei e il presidente cinese Xi Jinping, eventi percepiti dai più come l’imminente invasione del mercato nostrano e dell’UE da parte della Cina.

A certa retorica politica, fatta di immigrazione di massa incontrollata, una parte importante del ceto intellettuale oppone un’altra invasione: l’invasione del dragone cinese. Non importa quanto sia strutturata e complessa – apparentemente – la narrativa che la caratterizza: che venga dall’Asia oppure dall’Africa, l’invasione dell’Occidente è, ormai, prossima. Sembra si tratti, quasi, di una legge deterministica che voglia accentuare l’urgenza del nemico e che si impiega all’occorrenza per sostenere quell’ethos necessario che serve a delimitare il lebensraum che distanzia noi da loro. E, parafrasando Gaber, se non oggi o, forse, domani, sicuramente la nuova orda di Unni arriverà dopodomani, finanche alle porte della Città Eterna. E non basterà un Papa questa volta a salvarla.

Effettuando, però, una lucida indagine retrospettiva, una mente attenta non potrà negare che solo in Occidente la società ha raggiunto uno stadio unico di sviluppo dall’inizio dei tempi. Questo perché la civiltà Occidentale – a differenza della Civiltà Confuciana – ha saputo dotarsi nei secoli di competizione, generata dalla natura decentralizzata della vita politica ed economica (attraverso la liberazione delle forze del mercato), dell’istituto giuridico della proprietà privata e, conseguentemente, di una prolifica ricerca scientifica e medica che ha, persino, consentito un poderoso allungamento della vita media dell’individuo.

Ed in Cina, al momento, non sembra stia accadendo qualcosa di diverso negli ultimi anni. Anzi, l’attuale status quo dimostra, in assoluta contrapposizione a ciò che si legge nei testi scritti da Max Weber, che un’economia di mercato rigogliosa può mettere radici e fiorire anche in una società non occidentale. Infatti, con la morte di Mao nel 1976 il governo cinese ha deciso di abbandonare la lotta di classe, ritenuta imperfetta e dannosa, e di sposare la modernizzazione come approccio alternativo per far risaltare la superiorità del proprio Paese.

L’amara delusione nei confronti del disastroso esperimento di Mao aveva, infatti, dotato i vertici del Partito Comunista Cinese di un certo pragmatismo. Tutto ciò sta conducendo, se pur con numerosi limiti intrinseci a causa della natura ancora assai pervasiva e centralizzata dello Stato, ad un’economia piuttosto vivace e traboccante di forze di mercato.
Ad oggi, tuttavia, sotto la potente e tutt’altro che invisibile mano del Partito, l’emergente economia di mercato del Paese viene spesso considerata di diversa conformazione, non semplicemente differente ma addirittura nemica dell’ordine del mercato Occidentale.

È fattuale che l’economia del mercato cinese sia diversa da quella di qualsiasi altro modello occidentale – e ciò è dovuto a numerose caratteristiche distintive della Cina e del fatto che, indubbiamente, ci si trovi di fronte a formanti culturali differenti da quelli occidentali – ma l’accusa che il dragone costituisca una minaccia per il mercato globale è basata più sulla paura, conseguente alla capacità del Moloch Orientale di apprendere dai diversi modelli di corporate dell’Ovest, e sul malinteso che non sulla logica.

Indubbiamente, la trasformazione della Cina ha aperto orizzonti nuovi alla globalizzazione. Il colosso cinese, infatti, contribuisce allo sviluppo di numerose nazioni dell’Asia centrale e sudorientale, dell’America Latina e dell’Africa, le cui economie sono sempre più integrate nel mercato dell’Est. Questo conduce ad una preponderante svolta nella dinamica dei vantaggi comparati fra nazioni. Inoltre, a seguito delle crisi che hanno travolto USA e UE, è diventato un pilastro emergente dell’economia internazionale, rompendo il primato monolitico dell’Occidente e rafforzando l’integrazione dei mercati globali, aggiungendo un’innegabile diversità culturale.
Laddove il dragone ruggisce l’Occidente è oggi in affanno.

Le liberaldemocrazie hanno rotto il patto tra generazioni, scaricando sui propri figli e nipoti un debito pubblico dall’ampiezza incommensurabile. Un controllo asfissiante dei commerci e degli affari con l’imposizione di dazi e nuove guerre commerciali ha sostituto la complessità alla semplificazione. I parlamenti sono diventati apparati bulimici di norme e regolamenti. Infine, la libera iniziativa privata un tempo vivace e particolarmente produttiva, si è infiacchita, rendendo gli individui sospettosi, se non timorosi, nei confronti del diverso – ecco spiegata questa incessante paura dell’invasione dei tartari, poco importa se sia da Sud o da Ovest – e incapaci di rilanciare le proprie economie.

A quanti propongono policy volte a sbarrare la strada alle imprese asiatiche è opportuno ricordare che quando vengono meno le barriere che tengono divisi due paesi ne consegue un avvicinamento tra due culture che iniziano ad integrarsi. Sul piano del diritti, inoltre, vi è un rapporto molto netto tra lo sviluppo delle relazioni economiche e l’instaurazione di una società retta dal rule of law. E, così come la Grecia conquistata dai Romani, conquistò il selvaggio – traducendo la nota frase oraziana – non resta che attendere e capire se le élite dei Paesi Occidentali riusciranno a superare questa paura immotivata nei confronti del dragone cinese e se da una maggiore integrazione tra il mercato asiatico e quello occidentale si possa definitivamente smentire ogni previsione del secolo a crescita zero.