La spesa attraverso gli stimoli non fermerà le ricadute economiche del Coronavirus

Articolo tratto e tradotto da FEE.com (di Daniel J. Mitchell)

I “trenta denari” dell’economia keynesiana si ripresentano.

Il Coronavirus è una vera minaccia alla prosperità, almeno nel breve periodo, in gran parte perché sta causando una contrazione del commercio globale.

Il lato positivo di quest’aria di tempesta è che il Presidente Donald Trump potrebbe imparare che il commercio è in realtà buono e non cattivo.

Ma quando le nubi nere si addensano è probabile che ci scappi anche il fulmine, o perlomeno lo è quando la combriccola di Washington decide che è tempo di un’altra dose di economia Keynesiana.

  • Keynesismo fiscale – il governo prende in prestito del denaro dai mercati finanziari e quindi i politici redistribuiscono i fondi con la speranza che i destinatari spendano di più.
  • Keynesismo monetario – il governo crea più denaro con la speranza che dei tassi di interesse più bassi stimolino così i prestiti ed i destinatari spendano di più.

I critici avvertono, correttamente, che le politiche keynesiane sono sbagliate. Una maggiore spesa può essere una conseguenza della crescita economica,  ma non il fattore scatenante della crescita economica.

Ma i “trenta denari” dell’economia keynesiana continuano a riapparire perché offrono ai politici una scusa buona per comprare voti.

Il Wall Street Journal ha espresso la sua opinione sui rischi di un maggiore stimolo monetario keynesiano.

“La Federal Reserve è diventata il medico di base per qualsiasi cosa affligga l’economia degli Stati Uniti, e martedì il medico finanziario ha applicato quello che spera sarà un balsamo monetario contro il danno economico del Coronavirus. […] La teoria alla base del taglio dei tassi sembra essere che un’azione aggressiva sia il modo migliore per inviare un forte messaggio di stabilità ai mercati. […] ciò ci rende scettici. […] Nessuno prenderà quel volo per Tokyo perché la Fed improvvisamente paga meno sulle riserve in eccesso. […] Il grande errore della Fed dopo l’11 settembre è stato quello di mantenere i tassi all’1% o quasi per troppo tempo anche dopo che il taglio delle tasse del 2003 aveva fatto bisbigliare l’economia. Ecco come i semi del boom immobiliare e del tracollo furono seminati.”

E l’editoriale ha anche messo in guardia sugli ulteriori stimoli fiscali keynesiani.

Anche se un taglio fiscale temporaneo è il veicolo utilizzato per scaricare denaro nell’economia.

“Essendo l’anno delle elezioni, la classe politica sta anche iniziando a chiedere più “stimoli” fiscali. … Se il Signor Trump si innamorasse di questo, avrebbe abbracciato la Joe Bidenomics. Abbiamo già provato l’idea di una riduzione temporanea dell’imposta sui salari nell’era della lenta crescita sotto Obama, riducendo la quota del prelievo sui lavoratori dal 6,2% al 4,2% dello stipendio. Questa è entrata in vigore a gennaio del 2011, ma il tasso di disoccupazione è rimasto al di sopra del 9% per la maggior parte del resto di quell’anno. Le riduzioni fiscali temporanee mettono più denaro nelle tasche delle persone e possono dare una spinta a breve termine sulle statistiche del PIL. Ma l’effetto di crescita svanisce rapidamente perché non cambia in modo permanente sia l’incentivo a risparmiare che ad investire.”

Due punti veramente eccellenti.

Solo i tagli fiscali permanenti sul versante dell’offerta incoraggiano una maggiore prosperità, mentre così non fanno i tagli fiscali temporanei in stile keynesiano.

Data la divisione politica a Washington, non è chiaro se i politici saranno d’accordo su come perseguire il keynesismo fiscale.

Ma ciò non significa che possiamo rilassarci. Trump è un fan della politica monetaria keynesiana e la Federal Reserve è suscettibile alle pressioni politiche.

Non aspettatevi buoni risultati dagli intrallazzi monetari. George Melloan ha scritto  sull’inefficacia dello stimolo monetario l’anno scorso, ben prima che il Coronavirus diventasse un problema.

“I più recenti promotori degli “stimoli” monetari sono stati Barack Obama ed i presidenti della Fed che hanno servito durante la sua presidenza, Ben Bernanke e Janet Yellen. […] i presidenti dell’era Obama hanno cercato di stimolare la crescita “mantenendo la politica del tasso zero per sei anni e mezzo pur in un periodo di ripresa economica, e più che quadruplicando le dimensioni del bilancio della Fed”. E cosa abbiamo dimostrato? Dopo il crollo del 2009, la crescita economica tra il 2010 e il 2017 è stata in media del 2,2%, ben al di sotto della media storica del 3%, nonostante le drastiche misure della Fed. I bassi tassi d’interesse stimolano certamente i prestiti, ma non è la stessa cosa di una crescita economica. In effetti può spesso frenare la crescita. […] Infatti il Congresso si è fatto l’idea che il credito sia in qualche modo gratuito, quindi ora gente come Elizabeth Warren e Bernie Sanders pensano che lo Zio Sam possa prendere in prestito da un pozzo senza fondo. I prestiti facili non solo gonfiano i costi di servizio del debito, ma incoraggiano anche i cattivi investimenti. […] quando Donald Trump martella la Fed per avere dei tassi più bassi, […] ha ingaggiato una battaglia contro i mulini a vento.

Poiché la Federal Reserve ha già ridotto i tassi d’interesse, quel cavallo keynesiano ha già lasciato il fienile.

Detto questo, non aspettatevi buoni risultati. L’economia keynesiana ha un track record molto scarso (se il keynesismo fiscale ed il keynesismo monetario fossero una ricetta per il successo, il Giappone sarebbe in forte espansione).

Quindi speriamo che i politici non mettano una sella sul cavallo fiscale keynesiano.

Se Trump sente di dover fare qualcosa, ho classificato le sue opzioni (*) l’estate scorsa.

La linea di fondo è che una buona politica a breve termine è anche una buona politica a lungo termine.

(*) ecco alcune opzioni da adottare secondo Daniel J. Mitchell

  1. Eliminare i dazi – I vari dazi di Trump hanno reso l’economia americana meno efficiente e meno produttiva. E il Presidente ha il potere unilaterale di annullare le sue politiche protezionistiche e distruttive.
  2. Indicizzare i guadagni in conto capitale – L’argomento morale per utilizzare l’autorità di regolamentazione per indicizzare guadagni in conto capitale all’inflazione è altrettanto forte quanto l’argomento economico, per quanto mi riguarda. Le potenziali cause legali potrebbero creare incertezza e quindi ammutolire l’impatto benefico.
  3. Riduzione delle aliquote fiscali sui salari – Sebbene sia sempre una buona idea ridurre le aliquote fiscali marginali sul lavoro, i politici stanno solo prendendo in considerazione una riduzione temporanea, che ridurrebbe notevolmente qualsiasi potenziale beneficio.
  4. Non fare nulla – Ad oggi, in base alle dichiarazioni di Trump, questa parrebbe essere l’opzione più probabile. E dal momento che “fare qualcosa” a Washington spesso significa più potere per il governo, c’è una forte argomentazione in sostegno del “non fare nulla”.
  5. Infrastrutture – Temo che Trump si unirà ai Democratici (e ad alcuni Repubblicani “orientati alla carne di maiale”) per mettere in atto un pacchetto di spese per i trasporti.
  6. Easy Money dalla Fed – Trump spinge sulla Federal Reserve nella speranza che la banca centrale utilizzi i suoi poteri per ridurre artificialmente i tassi d’interesse. Il Presidente, a quanto pare, pensa che la politica monetaria keynesiana farà ruggire l’economia. In realtà, l’intervento della Fed di solito è la causa dell’instabilità economica.

Tassare le merendine per finanziare l’istruzione? Ecco l’ennesima bugia a danno di studenti, genitori ed … insegnanti!

La scuola pubblica nel nostro paese versa, di anno in anno, in una situazione sempre più critica. Sono già suonate le campanelle che annunciano il nuovo anno scolastico in tutta la penisola. Nuovo anno ma problemi vecchi. 

Tra precari e supplenti è sempre più emergenza personale. Nonostante le oltre 180 mila assunzioni a tempo indeterminato effettuate negli ultimi 4 anni, anche quest’anno molte cattedre rimarranno scoperte e sarà necessario ricorrere ai supplenti. Si stima, infatti, che vi saranno tra le 150 e le 200 mila supplenze per l’anno in corso. A completare il quadro – non proprio roseo – della situazione della scuola pubblica, si aggiunge una retribuzione media, per docente, inferiore a quella dei propri pari europei. 

Per questi motivi, da molti anni e da più parti politiche, istituzionali e sindacali, provengono pressanti e unanimi richieste di aumento della spesa statale nell’istruzione, che ad oggi si colloca tra le più basse in Europa. Come sempre, in questi casi, il problema è però dove trovare i soldi per finanziare questo aumento di spesa.

La soluzione di ciò si troverebbe nella proposta del nuovo Ministro dell’Istruzione, che appare, ad un primo sguardo, logica ed equa:

Vorrei delle tasse di scopo: per esempio, sulle bibite gassate e sulle merendine, o tasse sui voli aerei che inquinano. L’idea è: faccio un’attività che inquina (volare), oppure ho uno stile di alimentazione sbagliato (merendine)? Metto una piccola tassa, e con questa ci posso finanziare delle attività utili, come la scuola o gli stili di vita più sani.

Il novello “Robin Hood” propone di togliere ai “ricchi” (cioè, oltre alle solite multinazionali che producono il c.d. “junk food” anche i genitori, che comprando le merendine prodotte industrialmente mettono a rischio senza accorgersene la salute dei propri figli) per dare ai “poveri” (cioè agli insegnanti che tengono in piedi il sistema scolastico italiano).

A chi, in fin dei conti, non sembra assolutamente corretto od equo un provvedimento del genere? Limitare l’assunzione di zuccheri e di cibi c.d. “spazzatura” da parte degli studenti e, contemporaneamente, aumentare lo stipendio dei docenti, semplicemente mettendo una tassa sulle merendine … sembra una grande vittoria! Sia per il nuovo ministro che per il governo appena insediato!

Capite bene, però, che ottenere una riduzione dei consumi e, allo stesso tempo, un maggiore gettito per finanziare l’istruzione, sono due cose contrastanti ed inconciliabili tra di loro! L’obiettivo della tassazione su dei beni potenzialmente dannosi per la salute, come le merendine ed i cibi o le bevande zuccherate, è quello di scoraggiarne il consumo tramite un aumento del prezzo. Se questo disincentivo funziona, le abitudini di acquisto dei consumatori si modificheranno, causando una diminuzione delle vendite del bene considerato poco salutare. In sintesi, più il disincentivo ha successo, minori saranno, dunque, le vendite; di conseguenza, il gettito derivante non potrà che diminuire! Ma così, come risultato finale, si avranno per forza meno risorse per finanziare l’istruzione! E non di più, come invece è stato detto.

Insomma, una tassa, magari con un aliquota abbastanza alta che sia in grado di scoraggiare l’acquisto di cibi potenzialmente dannosi, non sarebbe una soluzione alla mancanza di fondi per la scuola, ma l’esatto contrario!

A conferma di ciò, vediamo come nei Paesi in cui questa tassa è stata introdotta, si è verificata proprio la riduzione delle vendite ed il conseguente calo del gettito fiscale.

In Messico, dove questa tassa è stata introdotta nel 2014 con un’aliquota del 10%, si è registrato un calo delle vendite del 6% ed una conseguente diminuzione del gettito.

Nel 2011, nella civilissima e iper-progressista Danimarca, il governo ha introdotto un’imposta sugli alimenti che contengono troppi grassi saturi. Gli effetti sono stati disastrosi. I Danesi hanno iniziato ad acquistare gli stessi alimenti, ma nei paesi confinanti! E, per di più, l’occupazione nel settore è diminuita di oltre 1.000 unità. Il governo è stato quindi costretto a fare retromarcia e a cancellare la tassa.

Dunque, non solo la tassa sul c.d. “cibo spazzatura” non sarebbe affatto utile per aumentare gli stipendi dei docenti, ma rischierebbe, infine, di mettere in difficoltà o addirittura in crisi il settore, danneggiando le imprese ed i lavoratori che operano nel campo della vendita alimentare, oltre che ovviamente le stesse famiglie che, qualora non dissuase dall’aumento della tassazione, si troverebbero a dover spendere comuqnue di più per comprare le stesse cose. Tanto più se si considera che si è deciso di mentire anche agli insegnanti, promettendogli aumenti di salario con un sistema che, come si è visto, va a sottrarre risorse e non ad aggiungerne!

Già nel 1800, Frederic Bastiat ci metteva in guardia da questo tipo di politiche, spingendoci a notare non solo “ciò che si vede” ma anche “ciò che non si vede”. Le nuove leggi non provocano un solo effetto (quello desiderato da chi le promuove), ma una catena di eventi. Il primo effetto è immediato ed è il più facile da valutare; mentre i successivi verranno allo scoperto solo con il passare del tempo. Un bravo “policy-maker”, sia esso ministro, sia esso economista, deve essere in grado di valutare non solamente il primo, il più evidente e manifesto, effetto, ma tutta la catena ad esso conseguente, per stabilire la validità e la correttezza di un nuovo provvedimento.

Troppo spesso ci si ferma all’apparenza, concentrandosi solo su “ciò che si vede” e tralasciando, invece, proprio “ciò che non si vede”. La lezione di Bastiat, circa 200 anni dopo, è più che mai attuale, ed è necessario tenerla a mente, per evitare di essere presi in giro da una classe politica che, troppo spesso, tratta come ‘sudditi’ i cittadini, in questo caso i genitori e gli studenti.

TAV: Le ragioni liberali per il No

Nell’intervista al prof. Francesco Ramella IBL abbiamo affrontato il tema della TAV e ne sono emersi degli spunti di riflessione molto interessanti.

In primo luogo, scarso peso sembra finora aver avuto, sia sui mezzi di informazione sia nell’ambito del processo decisionale, una terza posizione, anch’essa scettica sulla realizzazione dell’opera ma di matrice molto diversa da quella degli ambientalisti e dei sindaci locali in quanto fondata sulla comparazione costi e dei benefici del progetto.

In secondo luogo, l’inesistenza di una domanda di trasporto, passeggeri e merci, tale da giustificare la realizzazione della linea AV trova riscontro nel fatto che non vi è alcun soggetto privato disposto ad investire proprie risorse nel progetto che sarebbe quindi interamente finanziato a carico del contribuente

Tale constatazione non dovrebbe stupire se si pensa a quanto accaduto con il Tunnel della Manica (tra Parigi e Londra, non tra Torino e Lione) che, grazie soprattutto alla ferrea volontà di Margaret Thatcher, venne realizzato esclusivamente con fondi privati. Gli sfortunati risparmiatori francesi ed inglesi hanno visto nell’arco di un decennio quasi azzerarsi il valore del proprio investimento ma almeno in quel caso nessuno è stato obbligato a partecipare, in qualità di contribuente, ad un’avventura ad alto rischio.

Né la competitività del Paese, né la tutela dell’ambiente sembrano dunque essere motivazioni valide a sostegno della linea ad alta velocità tra Torino e Lione: restano gli argomenti di “imprenditori” che non vogliono rischiare e di politici in cerca di consenso a spese del contribuente.

Consigliamo dunque la lettura dell’IBL Briefing Paper che spiega le ragioni liberali per il “No” e la visione della nostra intervista per avere il quadro completo della situazione.

➡️ Leggi l’IBL Briefing Paper

➡️ Guarda l’Intervista al prof. Francesco Ramella di Students For Liberty Italia

Le Tasse Aeroportuali

Oggi vogliamo parlare di un argomento che, sebbene tocchi sempre più persone da vicino, non viene mai affrontato, se non in rarissimi casi: le tasse aeroportuali. Ne parliamo perché arrivano ad incidere su più del 70% del prezzo di un biglietto aereo. Ma perché sono così elevate? E quali voci sono comprese?

Partiamo dall’inizio. Se, dopo aver comprato un volo, avete dato un’occhiata al dettaglio dei costi, vi sarete accorti che la cifra finale è divisa in due sezioni: la “tariffa del volo” vera e propria e, per l’appunto, le “tasse aeroportuali”. Se per la tariffa non ci sono dubbi, in quanto è il vero e proprio costo del ticket – applicato dalla compagnia aerea – il cui prezzo è certo e determinato, non si può dire lo stesso per le tasse aeroportuali, instabili e fluttuanti, che dipendono da numerosi fattori.

Le voci più “imponenti” di queste ultime sono rappresentate dal “YQ”: ovvero il Codice unico per i ‘costi di sicurezza’, ‘assicurazione’ e ‘l’addizionale Fuel Surcharge’. E’ la voce più “pesante” delle tasse aeroportuali (circa l’85% delle stesse).

Il ‘sovrapprezzo del carburante’ sul prezzo (finale) del biglietto, viene deciso dalle compagnie per far fronte alle variazioni del prezzo del petrolio;

La ‘tariffa per la sicurezza’, introdotta a seguito degli attentati del 9/11, è per far fronte alle spese per l’acquisto di nuovi macchinari, l’assunzione del personale di sicurezza e la modifica delle procedure ai varchi dei controlli: su queste la compagnia, ovviamente, non decide nulla, in quanto le regole sono decise dalle agenzie internazionali. Se da un lato, sono state misure utili, poiché fatti del genere non si sono più ripetuti, dall’altro hanno influito molto sull’aumento dei prezzi – determinando un minore accesso al mercato aereo da parte dei consumatori meno abbienti – e, soprattutto, hanno reso normale esaminare fin nell’intimità i viaggiatori, violandone così la libertà e la privacy. E’ il ben noto bilanciamento tra libertà e sicurezza.

Un’altra grossa percentuale delle tasse aeroportuali è determinata dall’“IT”, cioè i ‘diritti di imbarco’: sono i costi che ogni compagnia aerea versa al gestore/proprietario dell’aeroporto per l’utilizzo delle sue infrastrutture. Variano ovviamente da aeroporto ad aeroporto e a seconda della lunghezza delle tratte. Su questo punto non abbiamo nulla da ridire: è giusto che gli utenti di un servizio (compagnia e viaggiatori) si spartiscano il costo di un servizio di cui usufruiscono. Generalmente, si può dire, le tasse sono legate all’aeroporto e vengono riscosse dal gestore per coprirne i costi. Solitamente aeroporti più piccoli applicano tasse più basse: ecco spiegato perché le compagnie low cost li scelgono.

Ma una tassa vera e propria, oltre la “FN” che sarebbe l’IVA, calcolata al 10%, sui diritti aeroportuali, è indicata con “HB”, ovvero ‘l’addizionale’ di competenza del Comune, del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, della Salute e del Ministero dell’Interno, dal valore perlopiù fisso: questa tassa include il ‘rimborso’ ai comuni limitrofi agli aeroporti per il disagio causato dal rumore degli aerei. A cosa servano di preciso non è dato saperlo. Ma immaginiamo che ognuno di questi enti abbia sentito la necessità di avere un introito ulteriore, sfruttando un mercato sempre in crescita come quello del trasporto aereo.

Un esempio potrà chiarire sulla questione: Secondo quanto riportato dal Sindaco di Fiumicino, in una lettera alla Presidenza del Consiglio e all’ANCI, l’addizionale comunale attuale per l’aeroporto di Fiumicino è di 8 euro: 5 euro a passeggero vanno direttamente all’Inps per un fondo integrazione Alitalia, 2 euro per ‘Roma Capitale’ (circa 40 milioni di euro in totale) per il pagamento del debito pregresso e 1 euro alla Ragioneria dello Stato che a sua volta li divide in 30 milioni devoluti all’Enav, il 60% della rimanenza va al Ministero dell’Interno e il 40% sempre al Ministero dell’Interno che li ripartisce ai Comuni aeroportuali.

C’è poi un ‘corrispettivo’, indicato con “EX”, per il ‘controllo bagagli da stiva’, legato ad ulteriori operazioni di sicurezza, ma… aspettate… non l’avevamo già considerato?

Stesso discorso vale per il “VT”, il ‘corrispettivo per la sicurezza del passeggero e del bagaglio a mano’. Perché non comprendere questi costi nella tariffa per la sicurezza? Sempre che già non lo siano: in questo caso, chi ha deciso l’esistenza di questi costi, tra gestori aeroportuali e agenzie per la sicurezza?

Infine, bisogna considerare l’“MJ”, ‘l’assistenza ai passeggeri disabili o a mobilità ridotta’, giustissima nel caso tra i viaggiatori ci siano persone con queste caratteristiche… ma in caso non ci siano perché richiederla?

L’“NH”, la tassa sull’utilizzo dei terminal da parte del passeggero. Ovvero, per accedere alle sale (check in, gate etc) dell’aeroporto vi fanno pagare una tassa;

L’“YR”, il corrispettivo dovuto per la vendita del biglietto, che varia a seconda del canale di acquisto (agenzia viaggi, sito internet, ecc);

L’“XT”, che indica un insieme di più tasse che, per motivi di spazio, non possono essere tutte specificate nel biglietto;

E la ‘Tassa di solidarietà’ a sostegno dei paesi del terzo mondo (varia da 1 a 40 euro, in base alla destinazione e alla classe di servizio prenotata).

L’ultima voce – ma non per dimensione – sono le “VARIE”, che comprende i ‘diritti di imbarco’, il ‘contributo per la sicurezza’ ed il ‘servizio al passeggero’: ma come, di nuovo? Si tratta dei costi che la compagnia aerea versa al gestore dei servizi aeroportuali, come le operazioni di check-in, di sicurezza doganale e/o servizi per i passeggeri, etc, di tutti gli aeroporti – oltre quello di partenza – inclusi nella tratta del proprio ticket.

Cosa ci dice questa analisi? Pur essendo una voce fissa sul dettaglio dei costi del biglietto, le tasse aeroportuali sono molto variabili, a seconda dell’aeroporto e della lunghezza del volo, ma costituiscono sempre una fetta enorme del costo finale di un biglietto aereo. Un costo solo in minima parte imputabile direttamente alla compagnia, e che invece è molto legato all’andamento del costo del carburante e, soprattutto, ai costi di gestione e della sicurezza degli aeroporti, che si presentano più di una volta o, quantomeno, su cui c’è una grande confusione. 

Siamo convinti che alcuni di questi costi possano tranquillamente essere evitati ed altri possano essere rivisti, con guadagno di tutti: gestori aeroportuali, compagnie aeree e viaggiatori. Speriamo che questo nostro approfondimento, possa avviare un fruttuoso dibattito sull’argomento.

Viva la Mamma! L’Epic Fail di AOC

Avrete sentito tutti parlare di AOC, ovvero Alexandria Ocasio-Cortez. E’ la nuova “speranza” (presunta) del Democratic Party americano e l’ennesima “sciagura” (certa) per l’economia statunitense: appoggia le idee socialiste del suo idolo Bernie Sanders, è a favore di un sistema sanitario universale e gratuito (vada a dirlo ai taxpayers che è gratuito), di un sistema universitario gratuito (rimandiamo sempre al confronto con i contribuenti), dell’aumento del salario minimo (da quando NY ha fissato per legge il salario minimo a 15$/ora, il settore ristorativo della città è entrato in recessione!), ha proposto un’imposta del 70% sui redditi milionari, ma soprattutto ha elaborato il “Green New Deal”. Quest’ultimo è un’accozzaglia di regole e aumenti di tasse e spesa pubblica per rendere l’economia americana più green. Inutile dire che, se implementate, queste proposte avranno un effetto che in realtà sarà molto più simile al “brown”.

Perché parliamo di AOC? Perché, con nostra profonda soddisfazione, ha scoperto l’effetto deleterio delle sue politiche economiche, grazie alle scelte di… sua madre. Quest’ultima ha, infatti, dichiarato alla stampa che, per via delle altissime tasse sulla proprietà vigenti nello stato di New York, ha deciso di trasferirsi in Florida, lo stato americano più liberista (secondo un rapporto del The Cato Institute), dove pagherà 600 $ l’anno invece di 10.000 $. 

Ovviamente mamma Cortez non è la sola a intraprendere scelte come questa: soprattutto negli ultimi mesi, si sta assistendo a un esodo di dimensioni importanti che da stati “terribili” come New York e California si sta muovendo verso stati dove si respira aria di libertà, non solo fiscale, come Texas, New Hampshire, Indiana, Nevada e Colorado, oltre alla già citata Florida. 

Insomma, il “Paese Reale” ha parlato, come diceva Milton Friedman “votando con i piedi”: ed il risultato di queste “elezioni” ci sembra più che mai palese.

➡️ Link ad uno dei tanti articoli americani che hanno diffuso la notizia.

➡️Articolo sulla recessione dei ristoranti a New York.

➡️ Classifica sulla libertà negli stati americani.