Giù le mani dai nostri risparmi

“Giù le mani dai nostri risparmi”. Condividiamo uno saggio del nostro National Coordinator per l’Italia, Giacomo Messina pubblicato su #LeoniBlog.

L’Euro e l’Europa avranno mille difetti e problemi, ma non sono la causa dei malesseri del nostro paese. Essi sono totalmente ed assolutamente autoinflitti. Essi sono causati da una classe dirigente che ha usato la politica economica ed i soldi dei cittadini Italiani per comprare voti e distribuire mance e favori ad amici ed elettori e da uno stato elefantiaco ed inefficiente che distrugge tutto ciò che i cittadini costruiscono e producono con sudore e fatica. Chi propugna soluzioni a suon di più debito e più deficit non sta proponendo nulla di nuovo, ma la solita ricetta trita e ritrita, che abbiamo avuto modo di vedere fallire nel corso degli ultimi 40 anni.

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La CONSOB è l’Autorità Italiana per la vigilanza sui mercati finanziari. Di conseguenza, dalla relazione finale del Presidente di suddetta autorità, mi aspetterei una visione d’insieme sulle performance passate, e sugli scenari futuri dei mercati finanziari e degli istituti di credito nel nostro paese. Al contrario, nella relazione del Presidente Paolo Savona, faccio fatica a trovare un riferimento al ruolo svolto dall’autorità che presiede e noto una preminenza di analisi e proposte di politica economica. Pertanto, il suddetto discorso, suona, alle mie orecchie, molto più simile alle “Considerazioni Finali” che una volta l’anno spettano al presidente della Banca d’Italia. Una sorta di “Contro-Considerazioni Finali” da parte del massimo esponente del “Contro-Apparato” che il governo gialloverde sta, chiaramente, tentando di costruire.

Detto quindi dell’incoerenza e dell’estraneità del discorso di Savona, rispetto alle funzioni che il suo organo dovrebbe svolgere, veniamo alla sostanza di quanto dichiarato dall’ex Ministro per gli Affari Europei del governo Salvini-Di Maio.

Pronti via e subito sentiamo di nuovo la storiella del gigantesco risparmio privato delle famiglie Italiane. Anche qui mi sorge subito un dubbio. Dove, di grazia, il Professore avrebbe preso il dato che afferma che il risparmio italiano sia pari a 16 mila miliardi di euro? La relazione di Banca d’Italia ed Istat parla di un ammontare pari a 9.743 miliardi di euro (Fonte: Banca d’Italia, PDF), di cui, oltre 5 mila miliardi investiti in abitazioni. Ora, andando oltre la prima imprecisione – di una lunga serie – del Presidente Savona, cosa ha a che fare il risparmio privato con il debito pubblico di cui si parla successivamente? Quando vi dicono che il debito non è un problema perché le famiglie italiane hanno un immenso risparmio, stanno paventando due ipotesi

La prima è quella di una patrimoniale. Lo stato si indebita, usa i nostri soldi per ingigantire sempre di più la già elefantiaca macchina statale, la già iper-inefficiente pubblica amministrazione, per elargire prebende e regali elettorali a destra e manca come fa da oltre 40 anni. Ma non c’è nessun problema state tranquilli! Appena la situazione dovesse divenire insostenibile, la soluzione sarà una patrimoniale. Cioè una tassa (ennesima) sul risparmio degli Italiani. Capito? Non solo finanziate tramite tasse ed imposte, giornalmente, lo stato ladro ed inefficiente, ma dovrete essere poi voi a mettere una pezza sui buffi fatti da chi ragiona come Savona e Co. rinunciando ai soldi che avete messo da parte, risparmiando ed investendo, per il vostro futuro e per quello della vostra famiglia.

La seconda soluzione non è molto diversa dalla prima. E prende la forma della cosiddetta “Repressione Finanziaria”, di fatto una patrimoniale mascherata sotto forma di “oro alla patria” di fascistissima memoria. Invece di imporci una tassa, lo Stato ci obbligherà ad investire esclusivamente in titoli del tesoro Italiani per finanziare, ancora una volta, il debito pubblico. 

Veniamo poi a quella che ritengo la principale contraddizione del discorso di Savona. Il Presidente della Consob ritiene che non vi sia un legame ottimale tra debito pubblico e Pil. L’importante è che, cito testualmente: “… il suo (del rapporto Debito/Pil, ndr) saggio di incremento deve restare mediamente al di sotto del saggio di crescita del Pil”.

Vi è una incredibile incoerenza di fondo. Se il saggio di incremento del Debito è inferiore a quello del Pil, allora il debito sta riducendosi. Quindi stiamo producendo surplus e non deficit (i.e. austerity).

Ma credo che qui il Professor Savona voglia dirci che non vi è, secondo lui, altra alternativa alla crescita economica che quella di accumulare debito e ribaltare così la dinamica esplosiva del rapporto Debito/Pil, agendo sul denominatore. Dinamica ampiamente smentita a livello teorico e pratico, potenzialmente devastante per il nostro Paese. Superfluo, poi, sottolineare che non esiste nessun paese che abbia ridotto il rapporto Debito/Pil facendo altro deficit – ma va!

Secondo tema che tengo ad approfondire è quello sulla, presunta, austerity e “virtuosità” fiscale del nostro paese. 

La spesa pubblica in Italia, al netto degli interessi, è aumentata in maniera costante e continua dal 1995 al 2018. Solo un paese ha fatto peggio di noi, la Grecia. Faccio fatica a considerare “virtuoso” un paese che ha ormai raggiunto e sfondato il tetto del 48% di spesa pubblica in rapporto al Pil. È vero, l’Italia è il paese che più tra tutti ha prodotto avanzi primari dagli anni 90 ad oggi. Ma ciò è dovuto principalmente a due fatti. Innanzitutto, negli anni ‘80 l’Italia ha prodotti ingenti disavanzi primari, mentre gli altri paesi spendevano meno di quanto guadagnassero. Ciò ha fatto si che si creasse un enorme stock di debito pubblico e, di conseguenza, la necessità di pagare sempre maggiori interessi sul debito. Da qui la necessità, negli anni ’90, di produrre avanzi primari, comunque mai sufficienti ripagare gli interessi. 

Glisso sul tema titoli di stato europei, che richiederebbe una trattazione a parte. Ci terrei, però, a far notare che l’Italia è stata una delle principali beneficiarie del programma di acquisti di titoli di stato dalla tanto vituperata, odiata ed antitaliana BCE. Nonostante questo enorme stimolo monetario, i rendimenti dei titoli di stato italiani sono rimasti molto alti. Praticamente gli unici in tutta la zona euro. Facciamoci due domande.

Faccio finta di non leggere un riferimento al fatto che l’IRI rappresentasse il fondo sovrano italiano, cosa che è chiaramente falsa, e vado alle conclusioni.

L’Euro e l’Europa avranno mille difetti e problemi, ma non sono la causa dei malesseri del nostro Paese. Essi sono totalmente ed assolutamente autoinflitti. Essi sono causati da una classe dirigente che ha usato la politica economica ed i soldi dei cittadini Italiani per comprare voti e distribuire mance e favori ad amici ed elettori e da uno stato elefantiaco ed inefficiente che distrugge tutto ciò che i cittadini costruiscono e producono con sudore e fatica. Chi propugna soluzioni a suon di più debito e più deficit non sta proponendo nulla di nuovo, ma la solita ricetta trita e ritrita, che abbiamo avuto modo di vedere fallire nel corso degli ultimi 40 anni.

Come la BCE continua ad incentivare l’irresponsabilità degli Stati

di Daniel Lacalle su Mises.org

La Banca Centrale Europea (BCE) sta continuando a gonfiare in modo sproporzionato la bolla del debito dell’Eurozona, mentre la congiuntura delle principali economie europee peggiora. Quello che è stato concepito come uno strumento per consentire ai governi di guadagnare tempo per realizzare riforme strutturali e ridurre gli squilibri, è diventato un pericoloso incentivo a perpetuare la spesa pubblica eccessiva e ad aumentare il debito, per due motivazioni pericolose quanto erronee: non c’è nessun problema finché il debito è a basso costo e non c’è inflazione.

Il basso costo dei prestiti non è una buona motivazione per aumentare il debito. Il Giappone ha un bassissimo costo del debito ed il costo del debito pubblico giapponese è quasi la metà delle entrate fiscali dello stato. Il debito del Giappone è 15 volte più alto del gettito fiscale raccolto dal governo nel 2018.

L’inflazione ufficiale dell’Eurozona dal 2000 mostra un aumento del 40% nell’IPC, mentre la crescita della produttività è stata trascurabile e gli stipendi e l’occupazione ristagnano.

La politica monetaria è passata, insomma, dall’essere uno strumento per sostenere le riforme ad una scusa per non attuarle.

È necessario rammentare che l’Euro non è una valuta di riserva globale. L’Euro è utilizzato solo nel 31% delle transazioni globali, mentre il dollaro USA è utilizzato nell’88%, secondo la “Bank of International Settlements” (la somma totale delle transazioni, come spiega la BIS nel suo rapporto, è del 200% perché ogni transazione coinvolge due valute).

I rendimenti obbligazionari nell’Eurozona sono mantenuti bassi artificialmente e danno un falso senso di sicurezza, offuscato da tassi di interesse estremamente bassi e da un eccesso di liquidità.

Il bilancio della Banca centrale europea è stato gonfiato fino a raggiungere il 40% del PIL della Zona Euro, mentre al picco del quantitative easing il bilancio della Federal Reserve non ha raggiunto il 26% del PIL statunitense.

Gli acquisti di buoni del tesoro della Federal Reserve non hanno mai superato le emissioni nette. La BCE continua a riacquistare obbligazioni una volta che maturano, nonostante abbiano moltiplicato i riacquisti e abbiano raggiunto un valore pari a 7 volte la cifra delle emissioni nette.

16 Titoli sovrani a dieci anni nell’Eurozona mostrano rendimenti reali negativi. La Grecia e l’Italia, gli altri due, sono esempi sorprendenti, poiché i loro rendimenti (corretti per valuta e inflazione) mostrano un differenziale trascurabile rispetto al bond decennale statunitense.

L’eccesso di liquidità nella Zona Euro supera i 18 trilioni di euro.

Tutto è giustificato perché “non c’è inflazione” eppure ce n’è, e parecchia. Non solo nelle attività finanziarie (come l’enorme bolla dei suddetti titoli sovrani), i prezzi nell’Eurozona sono aumentati del 40% dal 2000, mentre la produttività è aumentata di poco.

La possibilità di creare debito a basso costo non deve diventare una giustificazione per aumentarlo, ma un’opportunità per ridurlo.

Tuttavia, la situazione attuale fa sì che ci si adagi pericolosamente sugli allori, accumulando fattori di rischio a lungo termine.

La BCE continua ad ignorare il rischio di coda e a collezionare squilibri, aspettandosi ancora che la liquidità possa generare livelli di crescita e di inflazione che non sono stati raggiunti nemmeno dopo una serie di manovre espansive per duemila miliardi. Tutto ciò, mentre i pericoli insiti nella saturazione del debito si fanno sempre più vicini.

I governi dell’Eurozona identificano il basso tasso di rendimento come una sorta di conferma, da parte dei mercati, della validità delle loro politiche, quando in realtà questi sono semplicemente – e artificialmente – gonfiati dall’azione delle Banche Centrali. Un “effetto placebo”, insomma, che ha portato molti governi europei a ridimensionare la propulsione verso le riforme, e a credere che la via per rilanciare la crescita sia quella di tornare alla fallacia delle politiche del 2008.

Bassi tassi d’interesse non sono sinonimo di credibilità e sicurezza, ma prova della repressione finanziaria in atto e del timore di vedere l’ambiente macroeconomico indebolirsi ulteriormente.

Il problema principale sta proprio nel fatto che, per sostenere il suo processo di recupero, l’Eurozona si è affidata unicamente alla volatilità dei risultati dati da una politica economica basata sull’”effetto placebo”, concentrandosi su un unico obiettivo: abbassare il costo della spesa pubblica per renderla finanziariamente appetibile – obiettivo da raggiungere “whatever it takes”. Ciò fa sì che gli squilibri strutturali continuino a perdurare, che la percezione del rischio risulti falsata, e che l’economia perda dinamismo insieme all’aumento dei fattori di rischio sul lungo termine.

La BCE si ritrova, insomma, a dover fare i conti col “rovescio della medaglia” – o della moneta. Decidere per la normalizzazione significa privare i governi dell’illusione di stabilità data dai tassi bassi, ed incontrare quindi la loro resistenza. Di contro, lasciare la situazione immutata significherebbe ignorare il rischio che possa scoppiare un’altra crisi dell’Eurozona, stavolta nell’assenza più totale di strumenti atti a contenerla. È proprio per questi motivi che Francoforte deve affrettarsi ad alzare i tassi d’interesse, e smetterla di riacquistare i titoli in scadenza finché ancora gode della fiducia dei mercati.

Purtroppo, però, anziché proporre interventi sul versante della domanda, per ridurre la tassazione e l’effetto stagnazione dato dalla spesa pubblica, molti analisti continueranno a vedere nell’innalzamento della spesa e nell’aumento della liquidità una soluzione, che tuttavia finirà col rendere l’economia ancora più debole.

Il “rovescio della medaglia” dell’accumulo di debito a basso costo è che questo ha, sostanzialmente, gli stessi effetti di una bolla speculativa immobiliare: cela la liquidità e il rischio d’insolvenza reale, a fronte di condizioni di prestito troppo favorevoli per essere vere. Questo perché, appunto, non lo sono.

Articolo pubblicato in lingua inglese. Traduzione a cura di SFL Italia

Un “falco” alla BCE?

di Fabrizio Ferrari su Mises.org

Il primo di novembre, come è noto, si chiuderà l’”era-Draghi” alla guida della BCE, la Banca Centrale Europea. Di conseguenza, il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea dovrà accordarsi sulla nomina del successore; com’è altrettanto noto, vi è una forte pressione da parte degli stati del Nord Europa per sostituire Draghi – considerato come una “colomba” – con un “falco”, che sia quindi meno incline ad accomodare alle necessità di bassi tassi di rendimento sul debito pubblico dei paesi dell’Europa meridionale – o più precisamente, allo stato attuale delle cose, dell’Italia.

Ma quali motivi – se ve ne sono – legittimerebbero la scelta di un “falco” alla guida della BCE?

A ben vedere, e senza nulla togliere ai meriti di Draghi, il quale è stato chiamato – per l’ignavia e la pavidità dei politici italiani – a risolvere, con strumenti di politica monetaria “federale”, una crisi che avrebbe richiesto in eguale (se non superiore) misura l’intervento della politica fiscale nazionale, i motivi che richiederebbero un “falco” alla guida della BCE sono diversi:

Il primo. L’espansione monetaria, attuata massicciamente dalla BCE da marzo 2015 in poi, ha avuto, tra gli altri effetti, quello di produrre un’evidente alterazione dei prezzi relativi dei titoli di stato (ad esempio, i decennali) dei paesi europei, la cui misura inversa ci è resa nelle misurazioni dello spread; difatti, ad esempio, risulta difficile credere che sia unicamente giustificabile dalla presenza di fondamentali macroeconomici (quali, ad esempio, le prospettive di crescita del PIL ed il margine disponibile di incremento della pressione fiscale) l’esistenza di un divario tra titoli di stato decennali italiani e americani inferiore a quello tra titoli americani e tedeschi.

In altri termini, pare abbastanza evidente il consolidamento di un “effetto-Cantillon” (cioè, un’alterazione dei prezzi relativi conseguente ad un’espansione monetaria) nei mercati finanziari europei, sia per quanto riguarda le differenze tra i prezzi dei titoli di debito pubblico di diversi paesi—probabilmente inferiori a quelle implicate dai fondamentali—sia per quanto riguarda le differenze tra i prezzi dei titoli di debito pubblico e dei titoli di debito privato (a tal proposito, le figure 1 e 2 segnalano l’evidente prevalenza di acquisto di debito pubblico (Public Sector Purchasing Programme) all’interno del programma di QE della BCE, che va sotto il nome di Asset Purchasing Programme, o APP).

In sintesi, le azioni messe in atto dal QE (o APP) hanno beneficiato decisamente alcuni paesi (come l’Italia) che hanno potuto finanziarsi a basso costo—grazie al sostegno apportato alla domanda di debito da loro emesso—a scapito però, anche solo indirettamente, di altri paesi (come la Germania) e di parte del settore privato;


Figura 1: PSPP (la parte blu delle colonne) indica l’acquisto di titoli di debito pubblico



Figura 2: PSPP (la parte blu delle colonne) indica l’acquisto di titoli di debito pubblico

Il secondo. Da un punto di vista storico e politico, è ormai evidente che i paesi dell’Europa settentrionale, e la Germania in particolare, si sentano – legittimamente – presi in giro da anni di promesse non mantenute da parte, più che dei paesi meridionali, dall’Italia in particolare: difatti, l’Italia ha abbondantemente disatteso la promessa, fatta a Maastricht nel 1992 e rinnovata con ad Amsterdam nel 1997, di convergere in 20 anni ad un livello di debito pubblico su PIL pari al 60%, arrivando, anzi, ad un massimo storico post seconda guerra mondiale superiore al 132%. Senza troppi giri di parole, ai tedeschi (ed a chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale) appare evidente quanto segue.

L’Italia ha beneficiato dei bassi tassi di interesse (dal 12.2% di spesa per interessi nel 1993 al 3.7% nel 2018), della stabilità monetaria e dell’integrazione commerciale portate in dote dall’euro, senza offrire in cambio quell’unica contropartita (riduzione del debito e riforme strutturali) che tutti gli altri consociati le avevano richiesto per dare un senso al progetto. Nel do ut des (o sinallagma) alle fondamenta del patto sociale interstatale chiamato Euro, l’Italia ha preso quel che le serviva senza adempiere alle obbligazioni per cui si era impegnata;

Il terzo. Con la giustificazione della bassa inflazione, Draghi ha potuto soccorrere lo stato italiano e mantenere bassa la spesa per interessi sul debito pubblico; tuttavia, questo, soprattutto agli occhi dei tedeschi, ha un prezzo: difatti, non solo altera i prezzi relativi dei titoli come spiegato al primo punto, ma anche priva la BCE dello spazio di manovra monetaria e sui tassi di interesse che le potrebbe servire per attuare politiche monetarie anticicliche al prossimo rallentamento dell’economia europea.

Inoltre, pare difficile giustificare, sul piano teorico e politico, una stance di politica monetaria tesa alla stimolazione dell’economia dell’Eurozona in chiave anticiclica, soprattutto considerando che la base monetaria della BCE ha raggiunto (alla fine del 2018) un valore pari a 3.217 trilioni di euro (circa il 28% del PIL dell’Eurozona; la Fed, alla fine del 2018, aveva emesso base monetaria per un valoreinferiore al 17% del PIL statunitense), che l’Eurozona—seppur poco—cresce in termini reali e che, soprattutto, anche gli unici che crescono meno degli altri (guarda caso, l’Italia…) sono ormai al pieno impiego dei fattori (tasso di occupazione al massimo storico, output gap pari al -0.1% nel 2018, -0.3% nel 2019 e -0.1% nel 2020).

Infine, viene la ragione più importante di tutte, che riassume in larga parte i tre punti precedenti: purtroppo, come spiega Hayek diffusamente in “La Denazionalizzazione della Moneta”, le banche centrali hanno il potere di influenzare, tramite il loro monopolio sul controllo della moneta e dei tassi di interesse, l’andamento di alcuni prezzi relativi ad alto contenuto politico. Nello specifico, Hayek porta l’esempio delle inflazioni, che riducono i salari reali senza però attribuirne la colpa ai sindacati, che possono così evitare di pagare il peso politico della maggiore disoccupazione che le loro richieste salariali eccessive (rispetto alla produttività) causerebbero.

Nell’Eurozona è avvenuto qualcosa di molto analogo: l’attività di Draghi, tesa (anche se solo ufficiosamente) a tenere basso il costo del debito italiano, ha permesso alla politica nostrana di rinviare quelle riforme strutturali dell’economia e della spesa pubblica la cui procrastinazione, a condizioni di mercato, sarebbe stata fatta pagare a carissimo prezzo. Quindi, sia per la tranquillità dei risparmiatori nordeuropei, sia per la tenuta dell’unione monetaria e sia, soprattutto, per il bene dell’Italia, è giunto il momento di sostituire la “colomba” Draghi, madre amorevole ma troppo accomodante, con un “falco”, chiunque esso sia, che sappia vestire i panni di un’arcigna Signora di Rottermeier.

Articolo pubblicato in lingua inglese. Traduzione a cura di SFL Italia