Come la BCE continua ad incentivare l’irresponsabilità degli Stati

di Daniel Lacalle su Mises.org

La Banca Centrale Europea (BCE) sta continuando a gonfiare in modo sproporzionato la bolla del debito dell’Eurozona, mentre la congiuntura delle principali economie europee peggiora. Quello che è stato concepito come uno strumento per consentire ai governi di guadagnare tempo per realizzare riforme strutturali e ridurre gli squilibri, è diventato un pericoloso incentivo a perpetuare la spesa pubblica eccessiva e ad aumentare il debito, per due motivazioni pericolose quanto erronee: non c’è nessun problema finché il debito è a basso costo e non c’è inflazione.

Il basso costo dei prestiti non è una buona motivazione per aumentare il debito. Il Giappone ha un bassissimo costo del debito ed il costo del debito pubblico giapponese è quasi la metà delle entrate fiscali dello stato. Il debito del Giappone è 15 volte più alto del gettito fiscale raccolto dal governo nel 2018.

L’inflazione ufficiale dell’Eurozona dal 2000 mostra un aumento del 40% nell’IPC, mentre la crescita della produttività è stata trascurabile e gli stipendi e l’occupazione ristagnano.

La politica monetaria è passata, insomma, dall’essere uno strumento per sostenere le riforme ad una scusa per non attuarle.

È necessario rammentare che l’Euro non è una valuta di riserva globale. L’Euro è utilizzato solo nel 31% delle transazioni globali, mentre il dollaro USA è utilizzato nell’88%, secondo la “Bank of International Settlements” (la somma totale delle transazioni, come spiega la BIS nel suo rapporto, è del 200% perché ogni transazione coinvolge due valute).

I rendimenti obbligazionari nell’Eurozona sono mantenuti bassi artificialmente e danno un falso senso di sicurezza, offuscato da tassi di interesse estremamente bassi e da un eccesso di liquidità.

Il bilancio della Banca centrale europea è stato gonfiato fino a raggiungere il 40% del PIL della Zona Euro, mentre al picco del quantitative easing il bilancio della Federal Reserve non ha raggiunto il 26% del PIL statunitense.

Gli acquisti di buoni del tesoro della Federal Reserve non hanno mai superato le emissioni nette. La BCE continua a riacquistare obbligazioni una volta che maturano, nonostante abbiano moltiplicato i riacquisti e abbiano raggiunto un valore pari a 7 volte la cifra delle emissioni nette.

16 Titoli sovrani a dieci anni nell’Eurozona mostrano rendimenti reali negativi. La Grecia e l’Italia, gli altri due, sono esempi sorprendenti, poiché i loro rendimenti (corretti per valuta e inflazione) mostrano un differenziale trascurabile rispetto al bond decennale statunitense.

L’eccesso di liquidità nella Zona Euro supera i 18 trilioni di euro.

Tutto è giustificato perché “non c’è inflazione” eppure ce n’è, e parecchia. Non solo nelle attività finanziarie (come l’enorme bolla dei suddetti titoli sovrani), i prezzi nell’Eurozona sono aumentati del 40% dal 2000, mentre la produttività è aumentata di poco.

La possibilità di creare debito a basso costo non deve diventare una giustificazione per aumentarlo, ma un’opportunità per ridurlo.

Tuttavia, la situazione attuale fa sì che ci si adagi pericolosamente sugli allori, accumulando fattori di rischio a lungo termine.

La BCE continua ad ignorare il rischio di coda e a collezionare squilibri, aspettandosi ancora che la liquidità possa generare livelli di crescita e di inflazione che non sono stati raggiunti nemmeno dopo una serie di manovre espansive per duemila miliardi. Tutto ciò, mentre i pericoli insiti nella saturazione del debito si fanno sempre più vicini.

I governi dell’Eurozona identificano il basso tasso di rendimento come una sorta di conferma, da parte dei mercati, della validità delle loro politiche, quando in realtà questi sono semplicemente – e artificialmente – gonfiati dall’azione delle Banche Centrali. Un “effetto placebo”, insomma, che ha portato molti governi europei a ridimensionare la propulsione verso le riforme, e a credere che la via per rilanciare la crescita sia quella di tornare alla fallacia delle politiche del 2008.

Bassi tassi d’interesse non sono sinonimo di credibilità e sicurezza, ma prova della repressione finanziaria in atto e del timore di vedere l’ambiente macroeconomico indebolirsi ulteriormente.

Il problema principale sta proprio nel fatto che, per sostenere il suo processo di recupero, l’Eurozona si è affidata unicamente alla volatilità dei risultati dati da una politica economica basata sull’”effetto placebo”, concentrandosi su un unico obiettivo: abbassare il costo della spesa pubblica per renderla finanziariamente appetibile – obiettivo da raggiungere “whatever it takes”. Ciò fa sì che gli squilibri strutturali continuino a perdurare, che la percezione del rischio risulti falsata, e che l’economia perda dinamismo insieme all’aumento dei fattori di rischio sul lungo termine.

La BCE si ritrova, insomma, a dover fare i conti col “rovescio della medaglia” – o della moneta. Decidere per la normalizzazione significa privare i governi dell’illusione di stabilità data dai tassi bassi, ed incontrare quindi la loro resistenza. Di contro, lasciare la situazione immutata significherebbe ignorare il rischio che possa scoppiare un’altra crisi dell’Eurozona, stavolta nell’assenza più totale di strumenti atti a contenerla. È proprio per questi motivi che Francoforte deve affrettarsi ad alzare i tassi d’interesse, e smetterla di riacquistare i titoli in scadenza finché ancora gode della fiducia dei mercati.

Purtroppo, però, anziché proporre interventi sul versante della domanda, per ridurre la tassazione e l’effetto stagnazione dato dalla spesa pubblica, molti analisti continueranno a vedere nell’innalzamento della spesa e nell’aumento della liquidità una soluzione, che tuttavia finirà col rendere l’economia ancora più debole.

Il “rovescio della medaglia” dell’accumulo di debito a basso costo è che questo ha, sostanzialmente, gli stessi effetti di una bolla speculativa immobiliare: cela la liquidità e il rischio d’insolvenza reale, a fronte di condizioni di prestito troppo favorevoli per essere vere. Questo perché, appunto, non lo sono.

Articolo pubblicato in lingua inglese. Traduzione a cura di SFL Italia

Perché i Poveri devono vivere in Case Brutte?

Uno dei tanti temi che ha più riempito i notiziari in questi ultimi tempi è quello dell’edilizia residenziale pubblica, ovvero edilizia popolare, e cioè quelle operazioni di edilizia che vedono l’amministrazione pubblica offrire ai cittadini delle soluzioni abitative a basso costo.

Nel giro di una settimana si sono susseguiti due fatti eclatanti: ovvero, le proteste da parte dei residenti del quartiere di Casal Bruciato a Roma, cui si è aggiunta una mobilitazione da parte di un gruppo fascistoide, contro una famiglia di origine rom a cui era stato assegnato, attraverso un bando del Comune, un alloggio popolare; ed il gesto del card. Konrad Krajvesky – elemosiniere del Santo Padre (ufficio della Santa Sede che ha il compito di esercitare la carità verso i poveri a nome del Papa) – che ha rischiato la propria incolumità per riattaccare l’elettricità in un edificio occupato (e quindi pieno di abusivi).

Per parlare di questo tema pensiamo si debba partire da due punti fondamentali:

Il primo è che la proprietà privata è sacra ed inviolabile; il secondo è che l’edilizia popolare pubblica, in ultima analisi, nonostante le buone intenzioni che vi stanno dietro, porta comunque alla creazione di profondi disagi e tensioni sociali. Un altro punto che, in realtà, bisognerebbe tenere a mente, è che, come diceva Milton Friedman, “non esistono pasti gratis”.

Andiamo ora, perciò, a vedere perché l’edilizia popolare “non s’ha da fare” e cosa può essere fatto, invece, per aiutare chi non ha i mezzi economici per garantirsi un tetto sopra la testa: che è poi il fine ultimo di tutte le proposte politiche che ascoltiamo, ma che, sovente, non risolvono mai alcun problema.

C’è chi dice che la Casa – come migliaia di altre cose, oramai – sia un “Diritto”. Questa affermazione, tuttavia, è errata.

Non sta scritto da nessuna parte, nemmeno nella nostra Costituzione, “la più bella del mondo” (sic!), che debba essere fornito un alloggio ai meno abbienti. Ci ha però pensato la nostra Corte Costituzionale a riempire quella mancanza, da Paese del Socialismo reale quale siamo. Ed infatti, possiamo leggere un profluvio di belle e giuste affermazioni (per carità): “… è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione” (Sent. n. 49/1987); oppure “Il diritto all’abitazione rientra, infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (Sent. n. 217/1988); “Il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (Sent. n. 119/1999), e via discorrendo…

Tutte cose giuste e vere, bellissime… che si sono tradotte in? Nulla, assolutamente il nulla. Nessuno di questi richiami ad diritto alla casa è servito, nella realtà, a concretizzare un vantaggio palpabile per chi la casa la chiedeva. Questo ci dovrebbe far capire quanto i “diritti” siano bellissimi scritti su carta, ma poi, alla fine del paragrafo, li devi anche concretizzare… e se non si sa come concretizzarli, è un bel problema!

Quindi la Casa è un diritto? E se sì, si tratta di una richiesta sensata ed eticamente da appoggiare?

La risposta è No! Se si accetta che chiunque abbia diritto ad un’abitazione, significa dire non solo che si caricano gli altri, che una casa ce l’hanno e se la sono pure pagata (che strano!) di pagare per chi, invece, non può (o non vuole!) per ragioni di giustizia sociale, ma si dovrebbe accettare anche – dato che le risorse sono scarse e non si possono costruire case popolari ad libitum – che in caso di neccessità la proprietà privata possa essere violata per una qualunque ragione – e che quindi il modo migliore per garantirsi una casa sia di occupare una abusivamente o, peggio – come alcuni suggeriscono – che un Ente dello Stato possa espropiarla a chi la tiene (magari abbandonata) per darla a chi ne ha bisogno, sempre per ragioni di giustizia sociale. Una situazione da regime comunista puro.

Ma, se la casa non te la paghi e, anzi, o te la costruisce qualcuno che soldi propri non ce ne rimette o te la occupi pure, si arriva al punto che chiunque possa dichiarare di aver diritto all’alloggio che più gli si confà. E quindi perchè non occupare abusivamente la terrazza Campari a Milano? Perché tanto chi beve lì lo spritz può andarselo a bere anche da un’altra parte, tanto i mezzi economici li ha… e poi vuoi mettere con la vista Madonnina?

Torniamo, dunque, per un attimo, all’affermazione per cui “non esistono pasti gratis”. Infatti, nel corso dei decenni la cultura del “Welfare State” ha instillato nelle menti di molte generazioni l’idea che esso sia una sorta di “cornucopia”, per cui non c’è bisogno di preoccuparsi per il futuro (degli altri, ovviamente). Un esempio sono proprio i progetti di edilizia residenziale pubblica, che sono stati spesso presentati come “gratuiti”. Ovviamente lo scopo non era quello di dare una casa (come se non esistesse o fosse mai esistito un mercato edilizio fiorente, sopratutto se parliamo degli anni ’50-’60-’70 – quando si inaugurò la stagione dello ‘Stato impresario’), ma quello di creare un blocco di persone a carico, dipendenti dalla mano pubblica e per questo a lei grati.

Ma nesuno si è preoccupato di dire loro in che modo lo Stato soddisfacesse i loro bisogni: con le risorse sottratte ad altri. Anzi, istituzioni, cariche dello Stato, politici, sindacati, partiti – nel corso dei decenni – si sono preoccupati di nutrire queste persone con belle parole, con un sacco di “diritti”, in modo che fossero loro riconoscenti e che in cambio non facessero mancare il proprio sostegno elettorale… ma chi poi ha pagato per tutto questo?

Queste “istituzioni” hanno avuto poca comprensione economica, non sanno che la produzione deve necessariamente precedere il consumo. Invece lo Stato ha incoraggiato questa filosofia di pensiero – in modo che gli elettori percepissero un senso di euforia immediato – e quindi infischiandosene del futuro. Eh sì, perché va ricordato che, per quanto buone le intenzioni possano essere, ogni intervento pubblico va considerato come un modo per consolidare, o spostare verso di sé, il consenso dell’elettorato.

Il risultato di tutto questo? Basta farsi un giro nelle nostre periferie… (alla meglio) belli i casermoni? i palazzoni fatiscenti? (alla peggio) le vele di Scampia? il Corviale? gli ZEN?… già perchè se tanto mi da tanto, fai già che per molti è comunque meglio che sia lo Stato a costruire le case – seppur brutte, piccole e malfamate dove piazzarci i poveri, “però almeno avranno un tetto sulla testa” – piuttosto che ad occuparsene sia il Mercato. E tutto questo anche a costo di lasciare tutto, specie nei contesti più degradati, a criminalità ed abusivismo, in poche parole – qui sì – alla vera “legge del più forte”.

Ma, oltre ai luoghi fatiscenti e malfamati, si aggiunge il problema che, con l’attuale sistema dei bandi, capita molto spesso che una famiglia riceva un appartamento perché soddisfa i requisiti e poi resti lì vita natural durante, anche quando il loro bisogno è cessato e altri ne avrebbero più diritto.

Al netto di tutto ciò, c’è ancora chi persevera con l’idea per cui, in realtà, l’edilizia pubblica nel nostro paese sia di dimensioni minori rispetto ad altri paesi (l’esempio della Francia si fa di solito) e che, anzi, servirebbe che lo Stato s’impegnasse a costruire di più! A questi signori basterebbe ricordare che il fallimento dell’edilizia pubblica è sotto gli occhi di tutti, oltre al fatto che quartieri dell’edilizia popolare costano uno sproposito alla collettività, offrono abitazioni di bassa qualità, creano autentici «ghetti» e diventano occasione per occupazioni illegittime, oltre al fatto che ci sono migliaia gli appartamenti vuoti a causa della cattiva gestione degli enti pubblici (altro che espropriare gli immobili sfitti o abbandonati dei privati!)

Ma cosa fare, ovviamente, se talune famiglie non possono permettersi gli affitti o le rate di un mutuo?

Innanzitutto, ricordarsi che è proprio l’intervento pubblico a tenere alti, o alzare, questi prezzi. Ci sono tanti modi in cui questo viene fatto: dalla semplice inflazione, dovuta alla politica monetaria (nel nostro caso decisa a livello europeo), ai divieti che non permettono all’offerta di incontrarsi con la domanda. In un mercato non regolato, infatti, nel momento in cui affitti e prezzi cominciano ad aumentare, i costruttori di case costruirebbero altri alloggi per soddisfare la crescente domanda. Noi, però, viviamo in società iper-regolate e il mercato immobiliare non è da meno.

Si potrebbe dunque eliminare del tutto l’edilizia popolare, permettendo di costruire abbastanza edifici in modo da incontrare la crescente domanda di alloggi: purtroppo non c’è la volontà politica per farlo; è più facile continuare a regalare “diritti” a spese dei contribuenti.

Altre soluzioni potrebbero essere la dismissione degli immobili pubblici, così da disporre di risorse da reinvestire in settori più remunerativi e destinarne i ricavi alle famiglie in difficoltà. Soldi invece che case. Questo sistema favorisce di più la famiglia bisognosa, che, ricevendo denaro per cercarsi autonomamente un’alloggio, può trovare un appartamento confacente alle proprie esigenze, laddove invece la gestione pubblica non è in grado.

Si pensi al diverso valore delle case popolari rispetto a quello di un appartamento offerto dal mercato privato (che a volte sono manufatti dal valore superiore – nei Comuni più virtuosi e fuori Città) o alle esigenze di una persona anziana o disabile, che potrebbe quindi scegliere un appartamento al pianterreno, piuttosto di accontentarsi di un posto offerto dal Comune, ma magari all’ultimo piano e senza il montascale. Per giunta, c’è il vantaggio – non trascurabile – che la famiglia bisognosa potrebbe cercare un’alloggio nel quartiere in cui ha gli affetti ed il lavoro, e non dovrebbe dunque trasferirsi laddove si sia liberato un appartamento offerto dal Comune. Da ultimo, ci libereremmo dai carrozzoni pubblicci (come l’ATER o l’ALER) pieni di debiti ed insolventi.

Interessante in questo senso anche la proposta dell’Istituto Liberale – L’individualista Feroce di istituire un “Buono Affitto” un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione, sotto forma di tiket (come il “buono scuola” o i “buoni pasto”), tenendo comunque presente la necessaria temporaneità del sostegno (due o tre anni) in modo da ridurre i costi a carico della collettività. Certamente, anche nell’erogazione di aiuti finanziari ci potrebbero essere degli abusi, ma è più facile disdire un bonifico che sgomberare un edificio.

L’ultimo motivo per chiedere l’eliminazione dei programmi di edilizia popolare è relativo ai disagi sociali che questi creano. Infatti, nel momento in cui concedi un “diritto” a qualcuno, tutti ritengono di poterne e doverne avere accesso.

Ed è per questo motivo che, per quanto noi riteniamo il comportamento di Casapound estremamente riprovevole, non ci si può sorprendere quando vediamo scene di questo tipo: è l’edilizia popolare in sé stessa che crea scontri tra chi è assegnatario di un alloggio e chi, invece, rimane fuori.

Per quanto riguarda, invece, il gesto dell’elemosiniere del Papa non bisogna chiedersi se sia legale o meno: non è attraverso la legge che dobbiamo interpretare quello che succede, ma attraverso il buon senso (che talvolta può anche tradursi in legge, ma non è chiaramente così nel caso dei programmi di edilizia pubblica). Il cardinale Krajvesky ha sbagliato, ma non per il fatto che abbia violato una qualche norma del codice penale, ma perchè: primo non è giusto usufruire di un servizio – qualunque esso sia – se non lo si paga; secondo, perchè i costi delle bollette evase e non pagate finisce comunque sulla “groppa” di chi le paga e le ha sempre pagate. Ancora una volta va ricordato che “non esistono pasti gratis”, e il cardinale si è fatto “bello e buono” con i soldi degli altri (poteva semplicemente accollarsi i debiti delle bollette non pagate, invece che scaricare i costi del suo gesto, ancora una volta, sulla collettività).

Insomma, i motivi per eliminare questi programmi sono tanti. Il problema dell’“housing affordability” può essere risolto solo tramite un processo di Mercato, con l’incontro di domanda e offerta… ma lo si deve lasciar lavorare.

Ci chiediamo, dunque, alla fine di questo discorso, se ci sarà mai la volontà politica di affrontare questo cambiamento, diminuendo il ruolo della politica e di leggi, piani e regolamenti, e presentando infine il conto dei tanti pasti scroccati a chi deve sempre e comunque pagare per tutti.

Government Spending Efficiency 2019

Il World Economic Forum ha presentato un rapporto sulla “Government spending efficiency”, cioè l’efficienza della spesa pubblica. In questa classifica, ai primi 5 posti #TOP5 figurano: 

Emirati Arabi Uniti 🇦🇪
Singapore 🇸🇬
Stati Uniti 🇺🇸
Qatar 🇧🇭
Rwanda 🇷🇼

Nei due emirati chi governa utilizza perlopiù fondi propri e, per tale motivo, è attento alle spese. Singapore è l’esempio di liberismo ed efficienza economica, mentre gli Stati Uniti – seppur con una spesa federale immensa – sono caratterizzati da un’efficientissima struttura federativa, che permette di limitare molto gli sprechi e di indirizzare la spesa ad obiettivi realmente necessari per le singole popolazioni locali. 

#TOP10 Tra i Primi 10 figurano:
Germania (6) 🇩🇪 
Arabia Saudita (7) 🇸🇦
Svizzera (9) 🇨🇭

#TOP20 Nella Top 20 troviamo:
Malesia (15) 🇲🇾
Cina (19) 🇨🇳
India (20) 🇮🇳

Per trovare l’Italia, dobbiamo andare oltre:
Gran Bretagna (27) 🇬🇧
Russia (57) 🇷🇺 
Francia (67) 🇫🇷 
Nigeria (120) 🇳🇬 
Haiti (123) 🇭🇹 

🇮🇹 Su 136 Paesi presi in considerazione, infatti, il nostro figura al 126° posto (tra Guatemala ed Ecuador), tenendosi dietro solo i Paesi sudamericani più disastrati: 
Colombia (129) 🇨🇴
Brasile (133) 🇧🇷
Venezuela (136) 🇻🇪 – che chiude la classifica – portato sull’orlo del collasso da 20 anni di politiche economiche di chiara ispirazione socialista.

Di fronte a tali dati, è evidente che la situazione possa migliorare solo diminuendo drasticamente la spesa pubblica, indirizzando spese e investimenti solo verso obiettivi che sono realmente necessari, e rivedendo – non da ultimo – la divisione delle responsabilità tra i vari enti territoriali italiani e lo Stato centrale, in favore dei primi. 

E’ ora di riprendere in mano gli scritti e le proposte del Prof. Gianfranco Miglio – che di queste problematiche ci avvertiva già più di 30 anni fa – e puntare a raggiungere un vero e sano federalismo, che responsabilizzi il più possibile gli amministratori locali e lasci allo stato centrale solo le competenze ad esso strettamente necessarie.

➡️ World Economic Forum Report