Perché dovresti ricordare Bruno Leoni

Il lavoro di Bruno Leoni merita di essere ricordato perché il suo omicidio, mezzo secolo fa, ha messo a tacere la sua coerente e originale voce per la libertà e perché pochi italiani sono, persino oggi, consapevoli del suo contributo.

Bruno Leoni era uno studioso, filosofo politico, avvocato, editorialista ed uno dei più importanti liberali classici del XX secolo in Italia. Fu professore di Filosofia del diritto e Dottrina dello Stato all’Università di Pavia per un quarto di secolo, dal 1942 fino alla sua morte. Ha fondato e curato la rivista di scienze politiche, Il Politico. E’ stato segretario e poi presidente della Mont Pelerin Society. Era un ammiratore di Ludwig von Mises e ebbe una grande influenza, tra gli altri, su Friedrich Hayek.

Il lavoro di Bruno Leoni merita di essere ricordato perché il suo omicidio, mezzo secolo fa, ha messo a tacere la sua coerente e originale voce per la libertà e perché pochi italiani sono, persino oggi, consapevoli del suo contributo. In particolare, vale la pena di riscoprire le sue intuizioni contenute in Freedom and the Law, che hanno affrontato con forza i rischi che una “legislazione iperestesa” rappresenta per la libertà.

“I sistemi giuridici contemporanei … lasciano un’area sempre più ristretta alla libertà individuale.”

“[Laddove] prevale sempre l’autorità … gli individui devono arrendersi, indipendentemente dal fatto che abbiano ragione o torto”.

“Il crescente potere dei funzionari governativi … interferisce … quasi a loro piacimento, con ogni tipo di interesse e attività privati”.

“Si dovrebbe rifiutare il processo legislativo ogni qualvolta sia possibile per le persone coinvolte raggiungere i propri obiettivi senza dover dipendere dalla decisione di un gruppo e senza costringere effettivamente altre persone a fare ciò che non farebbero mai senza costrizione”.

“[Con] la dilatazione del processo legislativo … tutti prima o poi si confronteranno con … uno stato di disordini perpetui e di oppressione generale”.

“Un principio molto antico sembra essere stato violato nella società contemporanea … “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.”

“I sostenitori della proliferazione legislativa … [sostengono che] ciò che le persone reali decidono o non decidono all’interno di una società dovrebbe essere del tutto trascurato e sostituito da ciò che una qualsiasi manciata di legislatori potrebbe farsi venire in mente, decidendo per essi, in qualsiasi momento”.

“L’ideale dello “stato di diritto” … [era] il principio di libertà dalle interferenze da parte di tutti, comprese le autorità”.

“Ogniqualvolta la regola di maggioranza sostituisce la scelta individuale senza che ve ne sia la necessità, la democrazia confligge con la libertà individuale. È questo particolare tipo di espressione democratica che dovrebbe essere tenuto al minimo allo scopo di conservare un massimo spazio di democrazia che sia compatibile con la libertà individuale.”

La situazione paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini, non perché non siamo governati dal diritto, come pretenderebbe la classica teoria aristotelica, ma esattamente perché lo siamo.”

citazioni tratte e tradotte da Freedom and the Law

Bruno Leoni, a differenza di molti oggi, ha riconosciuto che “la legislazione … è in realtà molto meno capace di organizzare la vita sociale di quanto i suoi sostenitori sembrano credere”, e che “non vi è alcun dubbio sulla scelta a favore della libertà individuale, concepita come la condizione di ogni uomo di fare le proprie scelte senza essere costretto da nessun altro a fare controvoglia ciò che quest’ultimo gli impone.” Perché “se si dà valore alla libertà individuale di agire e di decidere, non si può evitare di giungere alla conclusione che ci deve essere qualcosa di sbagliato nell’intero sistema”, la risposta è in una “legislazione ridotta“, in cui “la facoltà di scegliere deve essere lasciate all’individuo e non alle autorità.”

Freedom and the Law di Bruno Leoni hanno chiaramente esposto l’argomento contro una “legislazione iperestesa”, che egli ha riconosciuto come il risultato a cui ambiscono persone in cerca “della libertà di costringere altre persone a fare ciò che queste non farebbero mai se fossero libere di scegliere da sole”. In altre parole, una legislazione così dilatata è incompatibile con la libertà, e più la sua portata coercitiva si espande, più la libertà viene persa. Vide anche l’unica soluzione definitiva per riprendersi la libertà nel “ridisegnare … le aree occupate rispettivamente dalle scelte individuali e dalle decisioni collettive … con il conseguente corollario di procedure coercitive”. Cioè, “dobbiamo ridurre i poteri dei legislatori per ripristinare per quanto più possibile la libertà individuale… consentendo alle persone di stabilire i propri fini”.

Nel 2003 è stato fondato in sua memoria l’Istituto Bruno Leoni, “per promuovere le idee per il libero mercato” e con lo scopo di “dare il suo contributo alla cultura politica italiana, affinché siano meglio compresi il ruolo della libertà e dell’iniziativa privata, fondamentali per una società davvero prospera e aperta”.

“L’Istituto Bruno Leoni ritiene che il pensiero di Bruno Leoni possa offrire un importante contributo al dibattito politico in Italia e in Europa. Maggiori informazioni sulla vita e le opere di questo grande pensatore sono disponibili sul sito dedicato Riscoprire Bruno Leoni” a cui rinviamo per un ulteriore approfondimento personale.

Noi di Students For Liberty Italia vogliamo ricordarlo oggi nell’anniversario della sua nascita, il 26 aprile del 1913, per i suoi insegnamenti e le sue idee troppo “scomode” e “raggelanti“, nella loro cruda ovvietà, per i detentori del potere, per la sua grandissima fama a livello internazionale che, ahinoi, non ha raccolto lo stesso riconoscimenti nel nostro Paese: Nemo propheta in patria.

SFLItalia Intervista Vitalba Azzollini e Giuseppe Portonera

Con Vitalba Azzollini e Giuseppe Portos Portonera abbiamo parlato degli aspetti legali (di Costituzione principalmente) dell’emergenza Covid-19: limitazioni delle libertà, l’adozione dei Dpcm, delle convocazioni del Parlamento, delle App di tracciamento e della conseguente tutela della privacy, delle competenze delle Regioni (limitatamente alle dichiarazioni del Presidente Vincenzo De Luca di voler chiudere la Campania se i contagi nelle regioni del Nord non accenneranno a diminuire: lo può fare?)

Guarda il Video

Facebook Video
Youtube

Ascolta questo episodio anche in versione PODCAST
Spreaker

Come la “Cannabis light” ha danneggiato gli spacciatori

I ricercatori delle Università di Salerno e di York hanno provato a stimare quanto la concorrenza del prodotto “Cannabis light” abbia strappato fatturato al mercato illegale.

Sulla carta, la “Cannabis light” in vendita in Italia può essere usata solo per scopi “tecnici” o “collezionistici”. Di fatto, è abbastanza ovvio che quasi tutti gli acquirenti la fumino. Con livelli di Thc (il principio attivo psicotropo) inferiori allo 0,6%, ma livelli di Cbd (che ha effetti rilassanti, ma non ‘sballa’) a volte superiori al 20%, il prodotto non può essere considerato una droga ma offre comunque quello che molte persone cercano nella marijuana, come ad esempio combattere l’insonnia o l’ansia.Con tutti i vantaggi di evitare effetti stupefacenti – magari sgraditi – e di non doversi rivolgere al mercato illegale.

A questo proposito, bisogna chiedersi quanto grande sia il giro d’affari che la Cannabis light ha strappato agli spacciatori. Alcuni episodi, come quello di Monterotondo, dove alcuni mesi fa un pusher ha incendiato un negozio di canapa, colpevole di fargli concorrenza, dimostrano che la questione c’è e va posta!

Tre ricercatori italiani hanno provato a dare una risposta con quello che è il primo studio mai attuato in merito.

La Ricerca

Vincenzo Carrieri e Francesco Principe, del dipartimenti di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università di Salerno, e il collega Leonardo Madio, dell’Università di York, hanno incrociato i dati forniti dalla polizia sui sequestri dei derivati illegali della cannabis su base provinciale con quelli sulla presenza dei negozi che vendono la Cannabis light a partire dal dicembre 2016, quando è entrata in vigore la legge che ha consentito la vendita di infiorescenze con una percentuale di Thc tra lo 0,2% e lo 0,6%.

I dati sono stati ponderati sulla base di fattori come la presenza di porti, dove avvengono i sequestri più ingenti, e condizioni ambientali che favoriscono la coltivazione di Cannabis e quindi l’approvvigionamento, a partire dalla presenza di corsi d’acqua. I numeri che contano sono soprattutto quelli raccolti a partire dal maggio 2017, quando era diventato disponibile il primo raccolto successivo a quella che lo studio definisce “liberalizzazione involontaria” e la vendita si era allargata dai negozi specializzati ai tabaccai e alle erboristerie, rendendo il mercato più omogeneo.

LINK ALLO STUDIO

Di quanto è calato il mercato illegale?

“L’Italia è un caso di studio interessante per via della presenza di una forte criminalità organizzata”

Come sappiamo, la criminalità organizzata trae la maggior parte dei suoi guadagni dalla vendita di stupefacenti, un mercato dove marijuana e hashish contano per il 91,4% del totale delle sostanze spacciate, per un giro d’affari di 3,5 miliardi.

Ancor più interessante è che la Cannabis light sia un “sostituto imperfetto” della Cannabis psicoattiva ma, nondimeno, è riuscita lo stesso a diminuire il giro d’affari dello spaccio in un Paese che ha tra i consumi più elevati d’Europa (il 19% dei giovani adulti, ovvero le persone tra i 18 e i 34 anni, contro una media UE del 13,9%)

“Abbiamo scoperto che la legalizzazione della cannabis light ha portato a una riduzione tra l’11% e il 12% dei sequestri di marijuana illegale per ogni punto vendita presente in ogni provincia e a una riduzione dell’8% della disponibilità di hashish […] i calcoli su tutte e 106 le province prese in esame suggeriscono che i ricavi perduti dalle organizzazioni criminali ammontino a circa 200 milioni di euro all’anno”

In una forbice stimata tra i 159 e i 273 milioni.

Si calcola inoltre che ad ogni negozio che vende la Cannabis light corrisponda un calo dei sequestri di Cannabis illegale pari a 6,5 chili all’anno. 

Una “sostituzione” inattesa

I numeri possono sembrare non così significativi, se paragonati a un mercato da 3,5 miliardi. I ricercatori sottolineano però che il vero impatto potrebbe essere molto più vasto, dal momento che la marijuana sequestrata rappresenta solo una parte minoritaria di quella disponibile sul mercato e che la Cannabis light è un “sostituto piuttosto imperfetto della marijuana disponibile sul mercato illegale”, avendo una percentuale di Thc minima e, quindi, “effetti ricreativi molto più bassi”.

Nondimeno…

“Le stime indicano che anche una forma lieve di liberalizzazione può soddisfare lo scopo di ridurre la quantità di marijuana spacciata e i relativi ricavi delle organizzazioni criminali”. 

Ecco quindi – inatteso – l’“effetto di sostituzione” nella domanda tra “Cannabis light” e “Cannabis di strada”, il cui contenuto di Thc è aumentato negli ultimi anni, con una media del 10,8% e picchi del 22%. Ciò lascia intendere che ci sono consumatori che preferiscono il prodotto legale proprio in virtù degli effetti più blandi.

Questo, affermano i ricercatori…

“Suggerirebbe alla politica un approccio misto alla legalizzazione, che da una parte dirotti i consumi illegali verso quelli legali, danneggiando il mercato nero, e dall’altra riduca le esternalità negative associate con l’uso e l’abuso di queste sostanze”.

Dove orientare la Ricerca

La ricerca sul settore è però appena iniziata e non offre elementi sufficienti a stimare i possibili benefici di una legalizzazione più ampia, sul modello di Canada e alcuni Stati degli Usa, fanno sapere i ricercatori.

Studi futuri, conclude il rapporto…

“… potrebbero indagare, nel contesto italiano, l’efficacia di questa blanda forma di legalizzazione sui crimini violenti e non violenti. Questo aspetto assume, per esempio, una rilevanza nel lungo termine, con una più efficiente allocazione delle risorse della polizia verso la repressione e la prevenzione di altri crimini”.

Ed infine…

“… sarebbe positivo stimare le entrate fiscali potenzialmente perdute, il che potrebbe essere un altro argomento a favore della liberalizzazione soprattutto in tempi, come quelli attuali, di stretti limiti alla politica di bilancio.”

Tratto da agi.it

Conclusioni

Ancora una volta, vogliamo sottolineare che il problema “droga” non si sconfigge con la proibizione. E questo studio lo ha ampiamente dimostrato, seppur analizzando una liberalizzazione “minima”.

Con il proibizionismo, invece, si può restare a guardare solo come si alimentino le mafie ed il narcotraffico.

Ecco perchè non bisogna punire chi commercia onestamente e segue le regole; e la lotta alle mafie non può passare attraverso la punizione di innocenti che con le mafie nulla c’entrano.

C’è un mercato nero, a cui nessuno riesce a mettere i sigilli, e che è aperto tutti i giorni, anche di notte, per vendere un prodotto “che sballa” e che fa male. Ma chi compra la “Cannabis light” sta cercando altro. Sono persone adulte, con piccoli problemi di salute, insonnia, dolori muscolari, persone che vogliono smettere di fumare sigarette, o persone che hanno un cattivo rapporto con il thc. Perchè punirle?

Cassazione: E’ reato vendere la Cannabis light. E ora chi paga?

Brusco stop alla crescita della filiera della cannabis sativa: la Cassazione ha dato l’alt! alla vendita di olio, resina, inflorescenze e foglie, ed ora a pagare è un settore nato da pochi anni ma che già impiega, lungo tutta la filiera, dal campo al negozio, circa 10.000 persone, e crea un un fatturato da 150 milioni di euro l’anno (un settore ancora di “nicchia”, ma in veloce crescita). A rischio chiusura dunque non solo negozi e rivenditori online, ma l’intera filiera dei prodotti derivati dalla “cannabis sativa L” (che deve avere un tasso di Thc tra lo 0,2 e lo 0,6%).

Tutto questo perché la norma sulla coltivazione di questa pianta non li prevede tra i derivati commercializzabili: rimane, com’è giusto dire, “muta”. Ma non è il classico “nel silenzio della legge, tutto è concesso”, è un silenzio pericoloso, perchè, lo sappiamo bene, incombe l’ormai noto a tutti “Testo Unico sulle droghe” del ’90. 

Che cosa ha detto la Cassazione?

Il punto di partenza di questa pronuncia a Sezioni Unite della Cassazione è stato proprio la legge sulla coltivazione della canapa (legge n. 242/2016), che mirava a facilitarne la coltivazione al fine di consentire l’uso di alcune parti ma, nel fare ciò, veniva aperta la possibilità (a quanto pare solamente in via interpretativa) di commercializzare parti della pianta notoriamente contenenti “principi attivi droganti”, fissando un limite specifico di principio attivo entro il quale la coltivazione era da ritenere lecita. Per effetto immediato di questa nuova legge, sono sorti molti negozi di ‘canapa light’. 

La pronuncia delle Sezioni Unite chiude un dibattito giurisprudenziale che si era sviluppato attorno a questa legge (a colpi di sentenze tra loro discordanti); e lo chiude in maniera assai netta e di estrema chiusura:

“La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della […] canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole […] e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”. Il fatto però che questi derivati non fossero espressamente vietati ha spinto alcuni negozi a iniziare le vendite.

Di conseguenza, “integrano il reato di “produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope”, le condotte di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa, salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”. Un passaggio questo che farà discutere.

Cosa succederà adesso?

Teoricamente in base alla decisione della Cassazione, che deve ancora depositare la motivazione, già da oggi le forze dell’ordine possono sequestrare nei negozi i prodotti della cannabis sativa vietati e denunciare chi li vende. Il Testo di riferimento non torna dunque ad essere (come alcuni dicono) bensì rimane sostanzialmente quello Unico sulle droghe, il “famoso” dpr 309/1990.

Altre info qui

La politica dovrebbe adeguarsi alla società

Merita citare a riguardo il pensiero di Alberto Mingardi (IBL) (La Stampa, 31 maggio 2019)

L’unica cosa certa, in questo momento, è l’incertezza. In Italia ci sono migliaia di esercizi commerciali che hanno aperto presumendo di non commettere alcun illecito.

Esiste una filiera, che d’improvviso si scopre in una terra di nessuno. Che dirà la politica a chi ha impiegato, in perfetta buona fede, i propri risparmi per aprire un’attività di questo tipo? Il nostro è un Paese nel quale la classe dirigente chiama “vittime” individui adulti che avevano investito nelle sei banche fallite e decide di indennizzarli, a carico della collettività. Che fare allora con persone che si sono convinte che le regole del gioco siano cambiate a partita iniziata?

Non avrebbero, paradossalmente, più titolo loro ad essere rimborsate? In tutto l’Occidente, la tendenza generale va nella direzione di una depenalizzazione della marijuana. Negli USA l’uso della cannabis per scopi medici è legale in trentatré stati, l’uso a scopo ricreativo è permesso in dieci, fra cui Washington DC, la capitale dell’impero. Questo riflette un cambiamento profondo nelle abitudini delle persone, che in larga misura ormai considerano questo “vizio” fra quelli ammissibili, persino meno disapprovato del fumo di sigaretta.

In Italia l’uso a scopo ricreativo è vietato ma proprio la moltiplicazione dei negozi di “cannabis light” testimonia forse come la sensibilità al tema è mutata. Ci sono momenti nei quali le regole formali debbono adeguarsi alle norme sociali. È improbabile che questo avvenga nel nostro Paese, dove la cannabis segna l’ennesima frattura fra i due partiti di governo. I quattrini, le aspettative, le speranze di quei quindicimila appaiono un dettaglio trascurabile. Del resto, si tratta solo d’imprenditori privati.

Conclusioni

I complimenti (sarcastici) vanno fatti a chi ha scritto la legge del 2016. D’altronde dalla Suprema Corte di Cassazione non ci si poteva aspettare altrimenti: troppo spesso, infatti, è chiamata a “fare politica” e a supplire, prendere il posto, del legislatore per colmare i vuoti, pur non rivestendo (formalmente) i panni del potere legislativo, specialmente nei settori che hanno a che fare con le scelte individuali di ciascuno e che vengono colpevolmente dimenticati o deliberatamente trascurati dal nostro legislatore. 

La lacunosa legge intorno alla quale è fiorito questo mercato nulla dice sulla commercializzazione dei derivati della canapa e, inoltre, non interviene sull’uso ricreativo della sostanza – tema che in Italia non si è mai voluto affrontare in maniera decisiva – e che, ça va sans dire, rappresenta il “carburante” di questo genere di commercio.

In un quadro normativo del genere, la Cassazione non ha potuto non prendere una posizione, complici anche il disordine portato da una serie di sentenze, contrastanti tra loro, provenienti da delle sue singole sezioni (ecco perché l’intervento della Sezioni Unite).

E, tuttavia, non possiamo dimenticare, come ci ricorda Mingardi, che è stato proprio lo Stato a consentire a questi negozianti di aprire, nonostante una legge lacunosa, a cui hanno anche cercato – invano – di porre rimedio con codici di autoregolamentazione.

Giusta la conclusione a cui approda Simone Cosimi di Wired.it

“Ma l’altro lato della questione è esattamente questo: perché in Italia dev’essere tutto appeso alle sentenze? È mai possibile che interi pezzi di business per un certo periodo di tempo tollerati e per certi versi promossi possano saltare perché chi dovrebbe scrivere le leggi non ne cura l’impatto, la qualità, gli effetti sul medio-lungo periodo, le parti volutamente o meno lasciate in silenzio?”

Chiudono i Cannabis Shop

Pare che l’ultima moda sia di voler chiudere i negozi di cannabis legale, sperando, con questa mossa, di risolvere il problema della dipendenza dalla droga. Oggi, dalla moda si è passati ai fatti: nelle Marche, due negozi di cannabis legale sono stati chiusi per ordine del Questore di Macerata, Antonio Pignataro. “Alle tante mamme che soffrono per i loro figli che fanno uso di cannabis avevo promesso che avrei chiuso tutti i negozi di Cannabis legale: oggi con la chiusura di questi altri due negozi, ho onorato la mia promessa”, ha spiegato il questore in un comunicato.

A parte il fatto che la “cannabis legale” lo è proprio perché non ha effetti allucinogeni, ma solo rilassanti: in pratica, il questore e i suoi sostenitori stanno dichiarando di voler impedire il commercio della “camomilla”.

La cosa più squallida di questa situazione è, però, il fatto che, ancora una volta, l’italica “INcertezza del diritto” punisce chi decide di investire in un determinato mercato, reso legale o liberalizzato in precedenza. Ora tanti negozianti si ritroveranno senza lavoro e nessuno li rimborserà mai per gli investimenti fatti. E no, non è un “rischio di impresa” come molti (incautamente) adducono.

Oltre a ciò, vogliamo sottolineare, ancora una volta, che il problema “droga” non si sconfigge con la proibizione: così si alimentano solo le mafie e il narcotraffico. Questi provvedimenti “spot” puniscono solo chi commercia onestamente e segue le regole: ma la lotta alle mafie non può passare attraverso la punizione di innocenti che con le mafie nulla c’entrano.

La proibizione, oltre ad arricchirle, permette alle mafie di creare droghe sintetiche, molto più pericolose della cannabis, e, certamente, della cannabis “light” ogni nel mirino. La proibizione, inoltre, affolla le carceri e criminalizza degli scambi che avvengono e avverrebbero comunque, che la legge la voglia o no.

Se vogliamo che circoli meno droga possibile, possiamo solo dire #EndTheDrugWar

Facile se hai i Corazzieri

La legge sulla legittima difesa passa l’esame del Presidente della Repubblica, che l’ha infine promulgata, contrariamente alle speranze di “molti” che vedevano nel Capo dello Stato l’ultimo argine contro una legge “ingiusta” e “incostituzionale” (a parer loro). Evidentemente la narrazione da questi fatta non si è rivelata corretta e la legge non presenta incostituzionalità talmente marchiane da impedirne la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nessuna “giustizia-fai-da-te” e nessun “Far West” all’orizzonte quindi. Completamente sconfitto dunque il “fronte” del NO! alla legittima difesa.

Tuttavia il Presidente ha contestualmente inviato una lettera alle Camere in cui esprime alcune osservazioni (alcuni li hanno chiamati dei “dubia”) che potete leggere a questo link

Posto che il linguaggio usato dal Presidente è il tipico che si riscontra in chi esercita le sue funzioni, cioè non da torto e ragione a nessuno, sono presenti alcuni richiami che vale la pena di approfondire. Non ci soffermiamo su alcune garanzie fornite dalla legge per chi si è avvalso della legittima difesa che però non vengono estese al di fuori del domicilio (per esempio se si viene aggrediti per strada), né al reato di rapina. Sono considerazioni di natura “tecnica” che, per competenza, lasciamo ai legislatori, agli operatori ed ai tecnici delle materie giuridiche.

La prima osservazione fatta dal Capo dello Stato è sul rapporto tra le nuove norme e il ruolo dello Stato, che, a detta di “molti”, verrebbe da queste annichilito. Il Presidente scrive correttamente che “Va preliminarmente sottolineato che la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini”. 

L’osservazione del Presidente è abbastanza ovvia e, contrariamente a quello che scrivono i giornali, è una stoccata a chi ritiene che, attraverso la legittima difesa, i cittadini possano sostituirsi allo Stato, con tutto il corredo degli allarmi alla “Giustizia-fai-da-te” e al “Far West” che ne conseguono. 

Tuttavia l’osservazione parte da un presupposto: che il diritto a difendersi sia una “gentile” concessione dello Stato, che ha la “primaria ed esclusiva responsabilità nella tutela della incolumità” e non, com’è in realtà, un diritto vero e proprio. Quindi, non supera la visione statalista e stato-centrica per cui lo Stato è al di sopra del cittadino, che da lui solo discendono le norme che dicono quello che è giusto e quello che è sbagliato, e che, se è concesso difendersi, lo è solo perché lo Stato ammette che puoi farlo: ma ricordati che lo Stato, siccome agisci “in via secondaria e sussidiaria” ad un potere che è il suo, avrà poi il diritto a decidere se lo hai fatto bene o lo hai fatto male.

Invece noi riteniamo che difendersi sia un diritto della persona, dell’individuo in quanto tale, e che solo lo sviluppo della moderna concezione dello Stato, delle teorie della difesa sociale, ha poi finito nell’individuare proprio nello Stato il primario ed esclusivo compito di difendere i cittadini. Ma questo è avvenuto dopo, e non toglie che il diritto a difendere se stessi da una minaccia rimanga saldamente in capo, in prima persona, proprio all’individuo stesso. Altro che in via secondaria e sussidiaria! 

Ecco perché esiste la “legittima difesa” in tutti gli ordinamenti. Proprio perché lo Stato non può difendere tutti in ogni momento, riconosce che, in caso di minaccia, di quell’originario potere di autodifesa – tenuto in sospeso dal generale divieto di farsi giustizia da sé – il cittadino possa riappropriarsi di quel suo diritto e di difendersi, senza temere la reazione punitiva dello Stato, che non ha potuto difenderlo. Se vi piace la teoria del contratto sociale, questa è una evidente clausola di “auto-tutela”. E questo, badate bene, non significa fare “Giustizia-fai-da-te” o il “Far West”, ma semplicemente tutelare la propria esistenza in mancanza della protezione generalmente offerta dallo Stato. 

La seconda osservazione fatta dal Capo dello Stato è sullo “stato di grave turbamento” derivante dalla situazione di pericolo in atto: scrive il Presidente che “è evidente che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. 

Qui il Capo dello Stato è coerente con quanto esposto prima: riassumendo, il Presidente dice che è concesso di difendersi “ma, se puoi, fanne a meno”. E’ evidente la riluttanza dello Stato a “mollare” la possibilità al cittadino di rispondere ad una minaccia, e anche se lo fa, deve ricordarsi che è lo Stato a decidere se ha fatto bene o male. Infatti, chiede che lo “stato di grave turbamento”, qual’è appunto l’ingresso di malintenzionati nella propria dimora, sia ancora una volta dimostrato… dal cittadino che si è difeso… anzi, lo deve dimostrare pure “oggettivamente”. Come se ci fosse bisogno di dimostrare “oggettivamente” che egli abbia avuto paura per l’ingresso dei rapinatori in casa o nel negozio! Sebbene nel nostro diritto gli stati emotivi non escludono né diminuiscono l’imputabilità, nella legittima difesa ciò non vale, in quanto essa vale solo per il fatto di essersi difesi (se stessi oppure altri) da un pericolo.

Una riflessione merita se l’indagine di questo requisito del “grave turbamento” – che il Presidente ritiene debba essere ancora “oggettivo” e che la riforma, invece, mirava proprio a rendere presumibile – debba ancora una volta essere affidato al giudizio di un giudice terzo (che quindi non ha patito quel grave turbamento) e secondo il suo ‘libero convincimento’ (potrà ritenere se ha avuto paura veramente oppure no) e non debba essere, invece, come noi riteniamo, presunto (per ovvie ragioni) e che solo attraverso una prova, un evidenza, “oltre ogni ragionevole dubbio” questa presunzione possa essere messa in discussione. 

Il Presidente rimane quindi agganciato al vecchio “modello”, per cui è il cittadino che, prima, si deve difendere dal delinquente, e poi, dal “giudizio” dello Stato. I suoi “dubia” non risolvono, dunque, il problema che assilla la gestione della legittima difesa nel nostro Paese: processi che, se nella gran parte dei casi, ovviamente, finiscono con l’assoluzione, sono lunghi, costosi, e richiedono uno sforzo psicologico, da parte di chi si è dovuto difendere, non indifferente. 

Riteniamo che un’alta percentuale di assoluzioni non sia sufficiente a giustificare un sistema che tiene per diversi anni sulla “graticola” chi si è trovato nella spiacevole necessità di difendere se stesso o i propri cari, perché i procedimenti penali mettono sempre in gioco i “valori di immensa portata” propri della persona umana, quali la libertà personale, la reputazione e il buon nome. Valori che forse il nostro Stato è disposto a sacrificare anche per lunghi tempi in vista dell’accertamento burocratico, fine a se stesso, ma che sono irrinunciabili per ogni “società di uomini liberi”.

Ricordando che la “vittima”, nei casi di legittima difesa, è sempre chi si difende e non chi ha subito una difesa legittima.

Basta con la “Guerra alla Droga”

Il Governo ha annunciato un nuovo giro di vite nella “guerra alla droga” ma, ancora una volta, si fa confusione tra spaccio e consumo di sostanze stupefacenti, presentando un disegno di legge volto a modificare la normativa vigente in tema di “modica quantità”.

L’attuale legislazione riguardo alla produzione e al traffico di sostanze stupefacenti nel nostro Paese è già abbastanza aggressiva e punitiva, soprattutto per quanto concerne le droghe c.d. ‘leggere’. Se siete in possesso di più di 5 g di Hashish o Marijuana lo stato vi considera a tutti gli effetti spacciatori, ma potrebbe bastare una quantità minore per essere accusati di traffico di stupefacenti, qualora, ad esempio, essa fosse in piccole dosi, o foste in possesso di bilancini di precisione. Le pene previste per questo reato comportano da 2 a 6 anni di reclusione e una multa.

Grazie a questa normativa, la popolazione carceraria italiana è composta per circa il 35% da detenuti per reati connessi e/o collegati alla droga. La Grande maggioranza è composta, però, da piccoli consumatori abituali e non dai Signori del narcotraffico che siamo abituati a vedere nelle serie TV dedicate.

Il co. 5 dell’art. 73 del ‘Testo Unico sugli Stupefacenti’, prevede pene minori per i casi di “lieve entità”, caratterizzati dal possesso di una modica quantità di sostanza, infliggendo la reclusione da 6 mesi a 4 anni e una multa. Il DDL propone, invece, l’abolizione della categorizzazione della “lieve entità” e l’aumento delle pene per questi casi – ricalcando una scelta che contraddistingueva la legge ‘Fini-Giovanardi’.

Nel 2006 il concetto di “modica quantità” era infatti stato abolito dalla legge ‘Fini-Giovanardi’ e reintrodotto nel 2013 dopo la ‘Sentenza Torreggiani’, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri, causato, principalmente, da una legislazione estremamente stringente sul tema. 

Il concetto di “modica quantità” è legato al consumo personale e non ha nulla a che vedere con i “venditori della morte”, bensì punirà i consumatori, producendo una ennesima ondata di arresti che non porterà ad alcun risultato che non sia il sovraffollamento delle carceri, distogliendo l’attenzione dal vero problema: la lotta ai padrini del narcotraffico che, con la droga, ha fatto le proprie fortune nonostante leggi severe in materia di stupefacenti.

Ancora una volta l’Italia ha imboccato la strada sbagliata, scegliendo di perseverare nella “guerra alla droga” che non ha condotto ad alcun beneficio, invece di provare a seguire la via della depenalizzazione e della liberalizzazione delle sostanze stupefacenti, accompagnata da campagne di informazione, prevenzione e da programmi di assistenza nei confronti di chi soffre di dipendenza.