BASTA soldi pubblici per Alitalia (Firma la Petizione)

Di seguito il testo della petizione lanciata da Andrea Giuricin su Change.org

Il Governo si appresta a sprecare altri miliardi di euro per Alitalia.

Nel decreto legge per le misure economiche per il #Coronavirus, la compagnia aerea sta per ricevere altri soldi pubblici. Centinaia e centinaia di milioni di euro ancora una volta!

Nell’articolo 79 del decreto si prevedono altri 500 milioni di euro per #ALITALIA.

Ma il Governo non si limita a mettere altri soldi pubblici in #Alitalia. Crea anche una #BadCO (una cattiva compagnia) per non ripagare contribuenti, fornitori e creditori.

Stiamo parlando di altri 3 miliardi circa con questa manovra!

Ma Alitalia ha già sprecato quasi 10 miliardi di euro pubblici negli ultimi 12 anni.

Paradossalmente con questi soldi, lo Stato Italiano si sarebbe potuto comprare: AirFrance-KLM, Lufthansa, SAS, Finnair, Norwegian e Turkish Airlines. Tutte quante!

Ma forse è bene ricordare questo: Questi soldi nostri potevano essere spesi in maniera migliore (magari per creare qualche terapia intensiva in più) o utili per abbassare il debito pubblico italiano.

E invece dopo 10 miliardi buttati, Alitalia ora trasporta solo l’8 per cento dei passeggeri da e per l’Italia, non certo una compagnia strategica per la connessione dell’Italia al mondo.

E’ ora di dire basta a questo spreco di soldi nostri.

Le risorse sono limitate e ce ne accorgeremo sempre di più in questo momento di crisi economica dovuta al Covid19.

Gentile Presidente Conte, non sprechiamo altri soldi dei contribuenti per Alitalia!

#AlitaliaBASTA

Firma anche tu la Petizione su Change.org

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clicca qui per scaricare il Focus Paper di Andrea Giuricin “Alitalia: la storia infinita”

La spesa attraverso gli stimoli non fermerà le ricadute economiche del Coronavirus

Articolo tratto e tradotto da FEE.com (di Daniel J. Mitchell)

I “trenta denari” dell’economia keynesiana si ripresentano.

Il Coronavirus è una vera minaccia alla prosperità, almeno nel breve periodo, in gran parte perché sta causando una contrazione del commercio globale.

Il lato positivo di quest’aria di tempesta è che il Presidente Donald Trump potrebbe imparare che il commercio è in realtà buono e non cattivo.

Ma quando le nubi nere si addensano è probabile che ci scappi anche il fulmine, o perlomeno lo è quando la combriccola di Washington decide che è tempo di un’altra dose di economia Keynesiana.

  • Keynesismo fiscale – il governo prende in prestito del denaro dai mercati finanziari e quindi i politici redistribuiscono i fondi con la speranza che i destinatari spendano di più.
  • Keynesismo monetario – il governo crea più denaro con la speranza che dei tassi di interesse più bassi stimolino così i prestiti ed i destinatari spendano di più.

I critici avvertono, correttamente, che le politiche keynesiane sono sbagliate. Una maggiore spesa può essere una conseguenza della crescita economica,  ma non il fattore scatenante della crescita economica.

Ma i “trenta denari” dell’economia keynesiana continuano a riapparire perché offrono ai politici una scusa buona per comprare voti.

Il Wall Street Journal ha espresso la sua opinione sui rischi di un maggiore stimolo monetario keynesiano.

“La Federal Reserve è diventata il medico di base per qualsiasi cosa affligga l’economia degli Stati Uniti, e martedì il medico finanziario ha applicato quello che spera sarà un balsamo monetario contro il danno economico del Coronavirus. […] La teoria alla base del taglio dei tassi sembra essere che un’azione aggressiva sia il modo migliore per inviare un forte messaggio di stabilità ai mercati. […] ciò ci rende scettici. […] Nessuno prenderà quel volo per Tokyo perché la Fed improvvisamente paga meno sulle riserve in eccesso. […] Il grande errore della Fed dopo l’11 settembre è stato quello di mantenere i tassi all’1% o quasi per troppo tempo anche dopo che il taglio delle tasse del 2003 aveva fatto bisbigliare l’economia. Ecco come i semi del boom immobiliare e del tracollo furono seminati.”

E l’editoriale ha anche messo in guardia sugli ulteriori stimoli fiscali keynesiani.

Anche se un taglio fiscale temporaneo è il veicolo utilizzato per scaricare denaro nell’economia.

“Essendo l’anno delle elezioni, la classe politica sta anche iniziando a chiedere più “stimoli” fiscali. … Se il Signor Trump si innamorasse di questo, avrebbe abbracciato la Joe Bidenomics. Abbiamo già provato l’idea di una riduzione temporanea dell’imposta sui salari nell’era della lenta crescita sotto Obama, riducendo la quota del prelievo sui lavoratori dal 6,2% al 4,2% dello stipendio. Questa è entrata in vigore a gennaio del 2011, ma il tasso di disoccupazione è rimasto al di sopra del 9% per la maggior parte del resto di quell’anno. Le riduzioni fiscali temporanee mettono più denaro nelle tasche delle persone e possono dare una spinta a breve termine sulle statistiche del PIL. Ma l’effetto di crescita svanisce rapidamente perché non cambia in modo permanente sia l’incentivo a risparmiare che ad investire.”

Due punti veramente eccellenti.

Solo i tagli fiscali permanenti sul versante dell’offerta incoraggiano una maggiore prosperità, mentre così non fanno i tagli fiscali temporanei in stile keynesiano.

Data la divisione politica a Washington, non è chiaro se i politici saranno d’accordo su come perseguire il keynesismo fiscale.

Ma ciò non significa che possiamo rilassarci. Trump è un fan della politica monetaria keynesiana e la Federal Reserve è suscettibile alle pressioni politiche.

Non aspettatevi buoni risultati dagli intrallazzi monetari. George Melloan ha scritto  sull’inefficacia dello stimolo monetario l’anno scorso, ben prima che il Coronavirus diventasse un problema.

“I più recenti promotori degli “stimoli” monetari sono stati Barack Obama ed i presidenti della Fed che hanno servito durante la sua presidenza, Ben Bernanke e Janet Yellen. […] i presidenti dell’era Obama hanno cercato di stimolare la crescita “mantenendo la politica del tasso zero per sei anni e mezzo pur in un periodo di ripresa economica, e più che quadruplicando le dimensioni del bilancio della Fed”. E cosa abbiamo dimostrato? Dopo il crollo del 2009, la crescita economica tra il 2010 e il 2017 è stata in media del 2,2%, ben al di sotto della media storica del 3%, nonostante le drastiche misure della Fed. I bassi tassi d’interesse stimolano certamente i prestiti, ma non è la stessa cosa di una crescita economica. In effetti può spesso frenare la crescita. […] Infatti il Congresso si è fatto l’idea che il credito sia in qualche modo gratuito, quindi ora gente come Elizabeth Warren e Bernie Sanders pensano che lo Zio Sam possa prendere in prestito da un pozzo senza fondo. I prestiti facili non solo gonfiano i costi di servizio del debito, ma incoraggiano anche i cattivi investimenti. […] quando Donald Trump martella la Fed per avere dei tassi più bassi, […] ha ingaggiato una battaglia contro i mulini a vento.

Poiché la Federal Reserve ha già ridotto i tassi d’interesse, quel cavallo keynesiano ha già lasciato il fienile.

Detto questo, non aspettatevi buoni risultati. L’economia keynesiana ha un track record molto scarso (se il keynesismo fiscale ed il keynesismo monetario fossero una ricetta per il successo, il Giappone sarebbe in forte espansione).

Quindi speriamo che i politici non mettano una sella sul cavallo fiscale keynesiano.

Se Trump sente di dover fare qualcosa, ho classificato le sue opzioni (*) l’estate scorsa.

La linea di fondo è che una buona politica a breve termine è anche una buona politica a lungo termine.

(*) ecco alcune opzioni da adottare secondo Daniel J. Mitchell

  1. Eliminare i dazi – I vari dazi di Trump hanno reso l’economia americana meno efficiente e meno produttiva. E il Presidente ha il potere unilaterale di annullare le sue politiche protezionistiche e distruttive.
  2. Indicizzare i guadagni in conto capitale – L’argomento morale per utilizzare l’autorità di regolamentazione per indicizzare guadagni in conto capitale all’inflazione è altrettanto forte quanto l’argomento economico, per quanto mi riguarda. Le potenziali cause legali potrebbero creare incertezza e quindi ammutolire l’impatto benefico.
  3. Riduzione delle aliquote fiscali sui salari – Sebbene sia sempre una buona idea ridurre le aliquote fiscali marginali sul lavoro, i politici stanno solo prendendo in considerazione una riduzione temporanea, che ridurrebbe notevolmente qualsiasi potenziale beneficio.
  4. Non fare nulla – Ad oggi, in base alle dichiarazioni di Trump, questa parrebbe essere l’opzione più probabile. E dal momento che “fare qualcosa” a Washington spesso significa più potere per il governo, c’è una forte argomentazione in sostegno del “non fare nulla”.
  5. Infrastrutture – Temo che Trump si unirà ai Democratici (e ad alcuni Repubblicani “orientati alla carne di maiale”) per mettere in atto un pacchetto di spese per i trasporti.
  6. Easy Money dalla Fed – Trump spinge sulla Federal Reserve nella speranza che la banca centrale utilizzi i suoi poteri per ridurre artificialmente i tassi d’interesse. Il Presidente, a quanto pare, pensa che la politica monetaria keynesiana farà ruggire l’economia. In realtà, l’intervento della Fed di solito è la causa dell’instabilità economica.

Perché i Poveri devono vivere in Case Brutte?

Uno dei tanti temi che ha più riempito i notiziari in questi ultimi tempi è quello dell’edilizia residenziale pubblica, ovvero edilizia popolare, e cioè quelle operazioni di edilizia che vedono l’amministrazione pubblica offrire ai cittadini delle soluzioni abitative a basso costo.

Nel giro di una settimana si sono susseguiti due fatti eclatanti: ovvero, le proteste da parte dei residenti del quartiere di Casal Bruciato a Roma, cui si è aggiunta una mobilitazione da parte di un gruppo fascistoide, contro una famiglia di origine rom a cui era stato assegnato, attraverso un bando del Comune, un alloggio popolare; ed il gesto del card. Konrad Krajvesky – elemosiniere del Santo Padre (ufficio della Santa Sede che ha il compito di esercitare la carità verso i poveri a nome del Papa) – che ha rischiato la propria incolumità per riattaccare l’elettricità in un edificio occupato (e quindi pieno di abusivi).

Per parlare di questo tema pensiamo si debba partire da due punti fondamentali:

Il primo è che la proprietà privata è sacra ed inviolabile; il secondo è che l’edilizia popolare pubblica, in ultima analisi, nonostante le buone intenzioni che vi stanno dietro, porta comunque alla creazione di profondi disagi e tensioni sociali. Un altro punto che, in realtà, bisognerebbe tenere a mente, è che, come diceva Milton Friedman, “non esistono pasti gratis”.

Andiamo ora, perciò, a vedere perché l’edilizia popolare “non s’ha da fare” e cosa può essere fatto, invece, per aiutare chi non ha i mezzi economici per garantirsi un tetto sopra la testa: che è poi il fine ultimo di tutte le proposte politiche che ascoltiamo, ma che, sovente, non risolvono mai alcun problema.

C’è chi dice che la Casa – come migliaia di altre cose, oramai – sia un “Diritto”. Questa affermazione, tuttavia, è errata.

Non sta scritto da nessuna parte, nemmeno nella nostra Costituzione, “la più bella del mondo” (sic!), che debba essere fornito un alloggio ai meno abbienti. Ci ha però pensato la nostra Corte Costituzionale a riempire quella mancanza, da Paese del Socialismo reale quale siamo. Ed infatti, possiamo leggere un profluvio di belle e giuste affermazioni (per carità): “… è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione” (Sent. n. 49/1987); oppure “Il diritto all’abitazione rientra, infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (Sent. n. 217/1988); “Il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (Sent. n. 119/1999), e via discorrendo…

Tutte cose giuste e vere, bellissime… che si sono tradotte in? Nulla, assolutamente il nulla. Nessuno di questi richiami ad diritto alla casa è servito, nella realtà, a concretizzare un vantaggio palpabile per chi la casa la chiedeva. Questo ci dovrebbe far capire quanto i “diritti” siano bellissimi scritti su carta, ma poi, alla fine del paragrafo, li devi anche concretizzare… e se non si sa come concretizzarli, è un bel problema!

Quindi la Casa è un diritto? E se sì, si tratta di una richiesta sensata ed eticamente da appoggiare?

La risposta è No! Se si accetta che chiunque abbia diritto ad un’abitazione, significa dire non solo che si caricano gli altri, che una casa ce l’hanno e se la sono pure pagata (che strano!) di pagare per chi, invece, non può (o non vuole!) per ragioni di giustizia sociale, ma si dovrebbe accettare anche – dato che le risorse sono scarse e non si possono costruire case popolari ad libitum – che in caso di neccessità la proprietà privata possa essere violata per una qualunque ragione – e che quindi il modo migliore per garantirsi una casa sia di occupare una abusivamente o, peggio – come alcuni suggeriscono – che un Ente dello Stato possa espropiarla a chi la tiene (magari abbandonata) per darla a chi ne ha bisogno, sempre per ragioni di giustizia sociale. Una situazione da regime comunista puro.

Ma, se la casa non te la paghi e, anzi, o te la costruisce qualcuno che soldi propri non ce ne rimette o te la occupi pure, si arriva al punto che chiunque possa dichiarare di aver diritto all’alloggio che più gli si confà. E quindi perchè non occupare abusivamente la terrazza Campari a Milano? Perché tanto chi beve lì lo spritz può andarselo a bere anche da un’altra parte, tanto i mezzi economici li ha… e poi vuoi mettere con la vista Madonnina?

Torniamo, dunque, per un attimo, all’affermazione per cui “non esistono pasti gratis”. Infatti, nel corso dei decenni la cultura del “Welfare State” ha instillato nelle menti di molte generazioni l’idea che esso sia una sorta di “cornucopia”, per cui non c’è bisogno di preoccuparsi per il futuro (degli altri, ovviamente). Un esempio sono proprio i progetti di edilizia residenziale pubblica, che sono stati spesso presentati come “gratuiti”. Ovviamente lo scopo non era quello di dare una casa (come se non esistesse o fosse mai esistito un mercato edilizio fiorente, sopratutto se parliamo degli anni ’50-’60-’70 – quando si inaugurò la stagione dello ‘Stato impresario’), ma quello di creare un blocco di persone a carico, dipendenti dalla mano pubblica e per questo a lei grati.

Ma nesuno si è preoccupato di dire loro in che modo lo Stato soddisfacesse i loro bisogni: con le risorse sottratte ad altri. Anzi, istituzioni, cariche dello Stato, politici, sindacati, partiti – nel corso dei decenni – si sono preoccupati di nutrire queste persone con belle parole, con un sacco di “diritti”, in modo che fossero loro riconoscenti e che in cambio non facessero mancare il proprio sostegno elettorale… ma chi poi ha pagato per tutto questo?

Queste “istituzioni” hanno avuto poca comprensione economica, non sanno che la produzione deve necessariamente precedere il consumo. Invece lo Stato ha incoraggiato questa filosofia di pensiero – in modo che gli elettori percepissero un senso di euforia immediato – e quindi infischiandosene del futuro. Eh sì, perché va ricordato che, per quanto buone le intenzioni possano essere, ogni intervento pubblico va considerato come un modo per consolidare, o spostare verso di sé, il consenso dell’elettorato.

Il risultato di tutto questo? Basta farsi un giro nelle nostre periferie… (alla meglio) belli i casermoni? i palazzoni fatiscenti? (alla peggio) le vele di Scampia? il Corviale? gli ZEN?… già perchè se tanto mi da tanto, fai già che per molti è comunque meglio che sia lo Stato a costruire le case – seppur brutte, piccole e malfamate dove piazzarci i poveri, “però almeno avranno un tetto sulla testa” – piuttosto che ad occuparsene sia il Mercato. E tutto questo anche a costo di lasciare tutto, specie nei contesti più degradati, a criminalità ed abusivismo, in poche parole – qui sì – alla vera “legge del più forte”.

Ma, oltre ai luoghi fatiscenti e malfamati, si aggiunge il problema che, con l’attuale sistema dei bandi, capita molto spesso che una famiglia riceva un appartamento perché soddisfa i requisiti e poi resti lì vita natural durante, anche quando il loro bisogno è cessato e altri ne avrebbero più diritto.

Al netto di tutto ciò, c’è ancora chi persevera con l’idea per cui, in realtà, l’edilizia pubblica nel nostro paese sia di dimensioni minori rispetto ad altri paesi (l’esempio della Francia si fa di solito) e che, anzi, servirebbe che lo Stato s’impegnasse a costruire di più! A questi signori basterebbe ricordare che il fallimento dell’edilizia pubblica è sotto gli occhi di tutti, oltre al fatto che quartieri dell’edilizia popolare costano uno sproposito alla collettività, offrono abitazioni di bassa qualità, creano autentici «ghetti» e diventano occasione per occupazioni illegittime, oltre al fatto che ci sono migliaia gli appartamenti vuoti a causa della cattiva gestione degli enti pubblici (altro che espropriare gli immobili sfitti o abbandonati dei privati!)

Ma cosa fare, ovviamente, se talune famiglie non possono permettersi gli affitti o le rate di un mutuo?

Innanzitutto, ricordarsi che è proprio l’intervento pubblico a tenere alti, o alzare, questi prezzi. Ci sono tanti modi in cui questo viene fatto: dalla semplice inflazione, dovuta alla politica monetaria (nel nostro caso decisa a livello europeo), ai divieti che non permettono all’offerta di incontrarsi con la domanda. In un mercato non regolato, infatti, nel momento in cui affitti e prezzi cominciano ad aumentare, i costruttori di case costruirebbero altri alloggi per soddisfare la crescente domanda. Noi, però, viviamo in società iper-regolate e il mercato immobiliare non è da meno.

Si potrebbe dunque eliminare del tutto l’edilizia popolare, permettendo di costruire abbastanza edifici in modo da incontrare la crescente domanda di alloggi: purtroppo non c’è la volontà politica per farlo; è più facile continuare a regalare “diritti” a spese dei contribuenti.

Altre soluzioni potrebbero essere la dismissione degli immobili pubblici, così da disporre di risorse da reinvestire in settori più remunerativi e destinarne i ricavi alle famiglie in difficoltà. Soldi invece che case. Questo sistema favorisce di più la famiglia bisognosa, che, ricevendo denaro per cercarsi autonomamente un’alloggio, può trovare un appartamento confacente alle proprie esigenze, laddove invece la gestione pubblica non è in grado.

Si pensi al diverso valore delle case popolari rispetto a quello di un appartamento offerto dal mercato privato (che a volte sono manufatti dal valore superiore – nei Comuni più virtuosi e fuori Città) o alle esigenze di una persona anziana o disabile, che potrebbe quindi scegliere un appartamento al pianterreno, piuttosto di accontentarsi di un posto offerto dal Comune, ma magari all’ultimo piano e senza il montascale. Per giunta, c’è il vantaggio – non trascurabile – che la famiglia bisognosa potrebbe cercare un’alloggio nel quartiere in cui ha gli affetti ed il lavoro, e non dovrebbe dunque trasferirsi laddove si sia liberato un appartamento offerto dal Comune. Da ultimo, ci libereremmo dai carrozzoni pubblicci (come l’ATER o l’ALER) pieni di debiti ed insolventi.

Interessante in questo senso anche la proposta dell’Istituto Liberale – L’individualista Feroce di istituire un “Buono Affitto” un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione, sotto forma di tiket (come il “buono scuola” o i “buoni pasto”), tenendo comunque presente la necessaria temporaneità del sostegno (due o tre anni) in modo da ridurre i costi a carico della collettività. Certamente, anche nell’erogazione di aiuti finanziari ci potrebbero essere degli abusi, ma è più facile disdire un bonifico che sgomberare un edificio.

L’ultimo motivo per chiedere l’eliminazione dei programmi di edilizia popolare è relativo ai disagi sociali che questi creano. Infatti, nel momento in cui concedi un “diritto” a qualcuno, tutti ritengono di poterne e doverne avere accesso.

Ed è per questo motivo che, per quanto noi riteniamo il comportamento di Casapound estremamente riprovevole, non ci si può sorprendere quando vediamo scene di questo tipo: è l’edilizia popolare in sé stessa che crea scontri tra chi è assegnatario di un alloggio e chi, invece, rimane fuori.

Per quanto riguarda, invece, il gesto dell’elemosiniere del Papa non bisogna chiedersi se sia legale o meno: non è attraverso la legge che dobbiamo interpretare quello che succede, ma attraverso il buon senso (che talvolta può anche tradursi in legge, ma non è chiaramente così nel caso dei programmi di edilizia pubblica). Il cardinale Krajvesky ha sbagliato, ma non per il fatto che abbia violato una qualche norma del codice penale, ma perchè: primo non è giusto usufruire di un servizio – qualunque esso sia – se non lo si paga; secondo, perchè i costi delle bollette evase e non pagate finisce comunque sulla “groppa” di chi le paga e le ha sempre pagate. Ancora una volta va ricordato che “non esistono pasti gratis”, e il cardinale si è fatto “bello e buono” con i soldi degli altri (poteva semplicemente accollarsi i debiti delle bollette non pagate, invece che scaricare i costi del suo gesto, ancora una volta, sulla collettività).

Insomma, i motivi per eliminare questi programmi sono tanti. Il problema dell’“housing affordability” può essere risolto solo tramite un processo di Mercato, con l’incontro di domanda e offerta… ma lo si deve lasciar lavorare.

Ci chiediamo, dunque, alla fine di questo discorso, se ci sarà mai la volontà politica di affrontare questo cambiamento, diminuendo il ruolo della politica e di leggi, piani e regolamenti, e presentando infine il conto dei tanti pasti scroccati a chi deve sempre e comunque pagare per tutti.

Game of Thrones mostra i problemi del potere centralizzato

La serie televisiva ci consente di vedere ciò che accade quando degli esseri umani, ovviamente imperfetti, si contendono lo scettro del comando in una situazione di vuoto di potere e quello che accade, poi, quando essi conseguono il loro obiettivo. In Game of Thrones si vede come nessun singolo personaggio sia adatto a sedere sul Trono di Spade, la cattedra del potere assoluto, così come, egualmente, nessun personaggio, o coalizione, sia adatto ad essere al vertice di un governo centralizzato. La conquista del trono, di volta in volta, da parte di ciascun personaggio, mostra il problema ciclico della politica quando ha a che fare con il potere centralizzato, cosa che, nel mondo reale, sia l’autoritarismo che il socialismo non sono riusciti ad affrontare.

Il problema del Male

È sufficiente scegliere uno qualunque dei personaggi dello show ed il problema della loro inadeguatezza diventa evidente. Iniziamo con degli esempi.

L’adolescente Joffrey Baratheon, che ha seduto sul trono per qualche stagione, era letteralmente un sadico.

Sua madre, Cersei Lannister, che sale al trono dopo la morte di tutti i suoi figli, non è certo migliore: la trappola esplosiva con l’alto fuoco, preparata al Tempio di Baelor, uccide tutti i suoi rivali ma, assieme, anche centinaia di innocenti (compreso, il suo ultimo figlio rimasto, Tommen, che si suicida per la perdita dell’amata, anch’essa nemica di Cercei). Cercei, inoltre, spinge il fratello Jamie Lannister, con il quale ha una relazione incestuosa, a buttare giù dalla torre il giovane Brandon Stark per averli scoperti, per caso.

Il principe Viserys Targaryen – alla morte del cui padre, il “Re folle”, dovette fuggire da Westeros e rinunciare al potere – accecato dall’arroganza e dalla brama di riconquistare il trono perduto, arrivò a promettere a sua sorella Daenerys che avrebbe consentito ad un intero esercito di abusarne se questo voleva dire riconquistare la sua legittima pretesa.

“Quando è posto in una posizione di assoluta autorità, ogni uomo o donna è soggetto alle stesse inclinazioni egoistiche che muovono ciascuno di Noi.”

Questi sono solo alcuni dei personaggi più crudeli e cattivi dello show, ma essi non sono i soli ad essere caratterizzati dalle iperboli tipiche dei tiranni. Nel corso della storia, quando anche altri personaggi assumono una posizione di assoluto potere, compiono anch’essi genocidi, assassinii e torture.

Le teorie sulla natura corruttrice del potere sono innumerevoli, ma rimane centrale per ciascuna l’imperfezione congenita dell’essere umano. Quando viene posto in una posizione di autorità, ogni uomo o donna è soggetto alle stesse inclinazioni egoistiche e alla paura di perdere il potere che ci contraddistinguono tutti. Questi difetti portano la anche la persona media ad intraprendere azioni di dubbia morale durante il corso della propria storia; ma quando il potere è centralizzato, la capacità di un tiranno di danneggiare gli altri diviene moltiplicata.

In breve, gli esseri umani sono imperfetti e, come possono mostrare altri esempi, anche gli uomini più virtuosi, alla fine, soccomberanno alla propria natura.

Jon Snow e il problema della Rappresentatività

Il “Re del Nord” è il protagonista centrale dello spettacolo ed il miglior candidato a seguire questa regola. Jon Snow agisce come il prototipo di eroe fantastico, un abile combattente ed un leader naturale. Possiamo dire che assomiglia ad un “politico ideale”. Combatte per i bisogni della sua gente e, stando alle sue parole, rifugge le prospettive del governo.

Nella sua provincia è un buon Signore, in grado di soddisfare la maggior parte delle richieste dei suoi sudditi. Ma il castello è piccolo, il suo popolo non è molto numeroso ed è disperso nelle vastità del Nord. Solo una minaccia imminente per il suo popolo, gli “Estranei”, lo mette a capo di un sistema centralizzato, seppur per la sopravvivenza. Diverso sarebbe se fosse stato seduto il Trono di Spade: sarebbero inevitabilmente sorti interessi molteplici e contrastanti e, nonostante il suo onore, Jon non sarebbe stato in grado di soddisfarli tutti.

Tornando al mondo reale, in “The Road to Serfdom”, Friedrich von Hayek scrive che in qualsiasi sistema centralizzato, “le opinioni di qualcuno dovranno decidere quali sono gli interessi più importanti”. In un piccolo Stato, in cui la cultura e le opinioni sono coerenti in tutto il territorio – come il Nord di Jon Snow – gli interessi contrastanti sono pochi.

Ma anche come Signore gli interessi personali di Jon entrano più volte in conflitto. Durante la Battaglia dei bastardi, ad esempio, il suo avversario Ramsey Bolton crea una sadica trappola per mettere Jon davanti ad una scelta: scegliere se salvare la vita di suo fratello o se rispettare un piano di battaglia ben congeniato. Pertanto, esattamente come Jon alla fine preferisce anteporre i bisogni della sua famiglia (i pochi) rispetto alle esigenze dei suoi alleati (i molti), allo stesso modo inevitabilmente i politici, in un sistema centralizzato, devono scegliere di privilegiare i bisogni di un gruppo o il bisogno di un altro a loro più prossimo. Gettatosi quindi in una decisione avventata, alla ceca, è solo per un intervento esterno ed inatteso, cioè l’arrivo dei Cavalieri della valle, che riesce a vincere la battaglia.

Al vertice di un governo, centrale come federale, tuttavia, è impossibile soddisfare una domanda senza calpestarne un’altra: i bisogni delle imprese rispetto alle preoccupazioni ambientali, l’equilibrio tra le preferenze educative di un gruppo culturale rispetto ad un altro, l’allocazione di fondi per le condizioni di svantaggio sociale più disparate. Sono tutte contrapposizioni che nessun governo unico centralizzato potrebbe gestire. Pertanto, come Jon ha preferito la famiglia piuttosto che i suoi alleati, i politici di un qualunque sistema centralizzato daranno priorità ai bisogni di un gruppo o di un singolo.

Daenerys e il problema dell’Autorità

Se Jon Snow è un “politico ideale”, Daenerys Targaryen è una “combattente per la libertà”. I suoi obiettivi sono nobili, come liberare la Terra dalla schiavitù o distruggere “la ruota” del potere a Westeros. A differenza di Jon Snow, rifugge dalle decisioni avventate e, salvo eccezioni, non decide senza prima essersi consultata con i suoi consiglieri. Tuttavia, non importa quanto siano nobili i suoi scopi, la sua inclinazione autoritaria è evidente.

Più volte, nel corso della serie, si affida alla forza distruttrice dei suoi draghi e al suo sempre più numeroso esercito per uccidere sì i potenti schiavisti, ma anche coloro che si rifiutano di inginocchiarsi ai suoi piedi.

Se nel Giulio Cesare di Shakespeare, mentre riflette sulla sua decisione di uccidere il sovrano, Bruto medita su come Cesare, una volta incoronato, avrebbe cambiato la sua natura, per Dany la domanda è: “cosa succede quando la schiavitù è stata abolita e lei – come Jon Snow – si ritrova di fronte a sfide eticamente ambigue?

Di volta in volta, in nome della libertà, ha bruciato vivi dei personaggi, comandato al suo esercito di macellare i nobili e di conquistare città. Ma anche di fronte alla questione, relativamente insignificante, se Jon Snow intenda o meno inginocchiarsi, ella gli ricorda, ancora una volta, dei suoi draghi. All’inizio della serie combatteva per i diritti individuali; nella sala del trono a Roccia del Drago, di fronte a sfide più complesse, la vediamo combattere invece per mantenere ed espandere il proprio potere.

La domanda che ci dobbiamo porre nel mondo reale è: “che cosa accade quando il potere centralizzato affronta questioni di Stato più piccole? Questioni come le prestazioni sociali, l’educazione o persino chi deve fare una torta?

Quindi, passando dal problema di rappresentatività ad uno di forza, una volta che la decisione è presa, la forza diventa lo strumento per raggiungere l’obiettivo.

Eddard Stark

Persino Ned Stark, il cui unico difetto apparente è la sua cieca dedizione all’onore, sarebbe incapace di governare. Forse vi sarebbe riuscito in un piccolo Stato (come il suo Nord) nel ruolo di un regnante quasi simbolico, rassegnato ad amministrare la giustizia e a dichiarare la guerra; tuttavia, se Ned Stark avesse tentato di gestire la politica o l’economia dei Sette Regni, si sarebbe presto trovato al di fuori della sue capacità.

Friedrich von Hayek ha affrontato spesso il problema posto dalla complessità. Nel suo saggio “The Use of Knowledge in Society”, scrive:

“È proprio perché ogni individuo sa poco e, in particolare, perché raramente sappiamo chi di noi sa, che è meglio che ci fidiamo degli sforzi indipendenti e competitivi di molti per indurre l’emersione di ciò che vorremmo, quando lo vediamo.”

Qualsiasi individuo, o anche un solo organo direttivo, è incapace di possedere le conoscenze necessarie per gestire un’intera società. Infatti, come non esiste un unico sistema di copertura, pubblica o privata, che possa soddisfare le diverse esigenze sanitarie di un’intera popolazione, non esiste un curriculum scolastico che istruisca adeguatamente ogni studente in una nazione variegata (per etnia, lingua, ecc…), non esistono sistemi di regolamentazione che, applicati in un Paese, possano proteggere in modo più efficace il consumatore, mantenendo al contempo la più completa libertà dell’industria di innovare e di produrre.

La Soluzione

Ci sono tre problemi quindi:

  1. Di fronte ad interessi contrastanti, un governo centralizzato dovrà favorire l’uno rispetto all’altro.
  2. Una volta presa la decisione, la forza diventerà l’unico strumento per raggiungere quell’obiettivo.
  3. Ma, anche in questo scenario ideale, qualsiasi governo centralizzato non sarebbe comunque in grado di prendere perfettamente ogni decisione e di agire in base ad ogni esigenza che si presenterà.

A questi tre problemi, un sistema capitalista può fornire delle risposte.

In risposta a questo ‘problema di comprensione’ Hayek fornisce la risposta in “The Road to Serfdom”, scrivendo che:

“Gli sforzi spontanei ed incontrollati degli individui [sono] in grado di produrre un ordine complesso di attività economiche.”

Con il processo decisionale esteso ad ogni individuo, sia acquirente che venditore, la popolazione può prendere collettivamente tutte le decisioni necessarie per raggiungere i fini ideali che si prefigge.

Per Dany, la domanda era: “Cosa succede quando la schiavitù viene abolita e lei, come Jon Snow, si ritrova di fronte a sfide eticamente ambigue?” Per quanto riguarda l’uso della forza, a differenza di Daenerys, quando il potere si estende ad innumerevoli produttori ed acquirenti, la Società inizia da sola a dirigere i propri obiettivi e le proprie preferenze; le persone possono “votare con il loro portafoglio” per sostenere un settore, oppure per chiuderlo, costringendo così le industrie a rimanere attente ai bisogni degli stessi consumatori.

I desideri conflittuali di Jon Snow non possono mai essere soddisfatti da uno Stato centralizzato. Tuttavia, laddove i piccoli organi di governo mantengono il potere, un sistema federalista può soddisfare meglio le richieste locali e culturalmente coerenti con (approssimativa) fedeltà.

Infine, il capitalismo non nega il problema del “male”, ma nel diffondere l’autorità ed il potere, offre sicuramente sufficienti controlli e bilanciamenti contro lo stesso.

Ci sono quattro problemi che ognuno dei personaggi che abbiamo citato pone: il problema del male, il problema degli interessi contrastanti, il problema della forza ed il problema della conoscenza.

Autoritarismo e Socialismo non saranno mai adatti a soddisfare tutti e quattro. Un sistema capitalista e di small government invece può.

Per una Pensione Felice

Libertà di scelta, concorrenza, competizione, mercato, sono alcuni tra i principi che dovrebbero l’agire politico di chi ritiene di essere un liberale (o liberista, o libertario, a voi la scelta dell’aggettivo che preferite). Concetti visti, troppo spesso, con diffidenza, sospetto e financo paura nel nostro Paese.

Frequentemente, lo Stato viene ritenuto l’unica possibilità per risolvere le difficoltà ed i problemi dei propri cittadini, e se ne auspica l’intervento come fosse il “Deus ex machina” delle tragedie greche. In realtà, le cose stanno in maniera diversa, spesso (parafrasando Ronald Reagan) lo Stato è la causa del problema ed il mercato la soluzione ad esso.

Un esempio chiaro e lampante proviene dal sistema pensionistico italiano di cui tutti ne riconoscono l’inefficienza e la non sostenibilità nel lungo periodo, ma nessuno è in grado di presentare delle proposte in grado di riformarlo in maniera radicale. Politicamente, il capitolo pensioni è uno dei più caldi e difficili da affrontare.

Negli ultimi 30 anni, nessun governo politico è riuscito a riformare il sistema pensionistico, lasciandone l’incombenza ai governi tecnici, costretti o ad aumentare l’età pensionabile, o il carico contributivo a capo al lavoratore o a diminuire l’importo delle pensioni per preservarne la sostenibilità. Questi interventi hanno creato disagi e malumori nella popolazione più anziana, che ha visto allontanarsi il traguardo della pensione, rafforzando ulteriormente lo scontro intergenerazionale che già dilaga in Italia. Scontro che si infiamma ulteriormente nel momento in cui i governi politici tentano di disfare tali interventi per compiacere una parte dell’elettorato.

Il sistema pensionistico italiano è – principale fonte di scontro tra giovani ed anziani – uno dei primi elementi di propaganda dei politici e, soprattutto, la prima e più importante fonte di spesa – e debito – dello Stato. La spesa per pensioni in Italia ha superato il 15% del PIL e viaggia, a vele spiegate, verso il 20%, risultando la prima voce di spesa, di gran lunga maggiore rispetto all’istruzione, alla sanità e alla protezione sociale.

Gli interventi “lacrime e sangue” che consistono in aumenti di età pensionabile o di contributi non hanno risolto il problema, ma solo posticipato il giorno del collasso del sistema. Bisogna tenere conto che, già oggi, i contributi previdenziali sono la principale componente del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo del lavoro pagato dalle imprese e il salario guadagnato dal lavoratore, ritenuto una delle principali cause dell’elevata disoccupazione in Italia. Auspicare un aumento degli stessi non sembra la migliore delle soluzioni per il lungo periodo.

In Italia viene utilizzato un sistema pensionistico a ripartizione, o “unfunded pension system” per usare i termini inglesi – che in questo caso ci vengono in aiuto per capirne meglio la natura. Perché “unfunded”? Diversamente da quanto viene fatto credere, il lavoratore che versa i contributi presso il monopolista statale INPS non sta creando un tesoretto da utilizzare per la sua futura vecchiaia ma, invero, per finanziare le pensioni attuali, cioè dei lavoratori attualmente in pensione.

Il sistema si regge su di un ‘patto intergenerazionale’ per cui i giovani lavoratori pagano i contributi che si tramutano in assegni per chi è già in pensione. Il sistema funziona in maniera ottimale, ed è in grado di offrire pensioni estremamente generose, fintanto che il tasso di crescita della popolazione rimane elevato. Le prime generazioni di pensionati sono quelle che più ci hanno guadagnato da questo meccanismo.

Ma la dinamica demografica che sta vivendo l’Italia da qualche decennio a questa parte, caratterizzata da un invecchiamento progressivo della popolazione, non rende più conveniente l’utilizzo di tale sistema.

All’inizio del secolo la quota di popolazione oltre i 65 anni rappresentava il 18,1% del totale e quella oltre gli 80 il 4%. Nel 2013 queste erano già passate rispettivamente al 21,2% e 6,3%. (fonte: “Rischi e proposte per il finanziamento del welfare italiano”; IBL). Le previsioni per il futuro non sono certo più rosee, l’ISTAT prevede un aumento della popolazione anziana del 47% entro il 2050 e nel 2065 la popolazione ultra 65enne sarà pari al 33%. Oggi il rapporto lavoratore pensionato è di 3 a 2, ma la previsione per il 2050 è di 1 a 1.

Come detto l’ammontare dell’assegno previdenziale dipende dalla quantità di contributi versati dal lavoratore in percentuale al suo salario. La principale componente che determina il salario è la produttività del lavoro. Altra nota dolente per il nostro Paese è che, secondo dati OCSE, ha il peggior dato per quanto riguarda l’aumento della stessa, secondo solo alla Grecia. Insomma, con una produttività stagnante, salari che non aumentano ed il progressivo aumento dell’età media la sostenibilità del nostro sistema pensionistico verrà messa a dura prova, e nuovi interventi a riguardo potrebbero inasprire il disagio sociale ed il conflitto intergenerazionale.

L’unica soluzione percorribile è quella di una “Rivoluzione Copernicana” del nostro sistema pensionistico, e cioè passare da un sistema “unfunded” ad uno “funded”, ovvero “a capitalizzazione”

In questo caso il lavoratore versa i contributi, che vengono accumulati in un fondo e serviranno poi interamente per pagare la propria pensione, eliminando dunque la necessità di un monopolista statale e stimolando la partecipazione ai fondi pensione, in concorrenza ed in competizione tra di loro per offrire la migliore soluzione al lavoratore. Inoltre, essi investirebbero la parte di contributi versati in attività finanziarie a basso rischio, determinando così un incremento reale di quanto accumulato nel proprio fondo a beneficio di tutti, cosa che non accade con l’INPS, che non investe o investe male, e gli incrementi sono solo quelli previsti dal governo a favore delle pensioni minime; in più, tali contributi, rimanendo nella gestione separata, rimarrebbero a riparo anche in caso di fallimento del proprio fondo. Invece oggi, se l’INPS dichiarasse “bancarotta”, per finanziare le erogazioni si dovrebbe ricorrere alla tassazione generale, con conseguente e sostanziale decurtazione del valore reale del proprio assegno.

In Cile questo sistema è già in vigore da circa 40 anni, e nessun governo si è mai sognato di tornare indietro, eliminando quanto di buono era stato fatto. In questi anni il rendimento medio dei conti di risparmio previdenziale è stato pari a circa il 10%.

L’OCSE, in uno studio del 2009 (“Reviews of labour market and social policies: Chile. The normalisation of Chile’s Pension system”. OECD) ha confermato il successo di tale riforma, indicando alcuni elementi particolarmente positivi tra cui: l’aver ristabilito la fiducia pubblica nel risparmio previdenziale; aver contribuito allo sviluppo del mercato finanziario e della crescita economica; ridotto la spesa pubblica attuale e futura del Paese.

Josè Pinera, principale artefice di tale riforma, ha affermato che

“La privatizzazione delle pensioni ha prodotto una radicale redistribuzione del potere dallo Stato alla società civile e, trasformando i lavoratori in proprietari a titolo personale del capitale complessivo del Paese, ha creato un’atmosfera politica e culturale più adeguata ad un mercato e ad una società effettivamente più liberi”.

Con questo sistema, che dovrebbe essere introdotto anche in Italia, ognuno avrebbe la possibilità di scegliere: ovvero sia l’ente a cui affidare i propri contributi, sia l’ammontare degli stessi. Non si sarebbe più costretti ad andare in pensione quando lo “permette” lo Stato e alle sue condizioni, ma ognuno deciderebbe per sé. 

Al netto degli evidenti vantaggi in termini di sostenibilità di spesa e debito nel lungo periodo, tale sistema aumenterebbe la libertà di scelta dei cittadini, consegnandogli le chiavi del proprio futuro, e togliendole dunque dalle mani di politici e burocrati. I politici non potrebbero più usare il denaro dei contribuenti per comprare il voto dei pensionati, inasprendo il conflitto tra generazioni ed il disagio sociale. 

La transizione tra l’attuale sistema ed uno a capitalizzazione non sarebbe ovviamente privo di costi e di facile implementazione, ma data l’attuale situazione e gli sviluppi futuri sembra opportuno fare un tentativo in questa direzione. Ricordandosi che qualsiasi intervento dello Stato vale finchè ci saranno dei soldi da spendere… ma quando finiranno? Solo un sistema basato sulla libertà di scelta del cittadino ed una sana concorrenza tra fondi pensione può risolvere l’annosa questione previdenziale del nostro Paese.