Tassare le merendine per finanziare l’istruzione? Ecco l’ennesima bugia a danno di studenti, genitori ed … insegnanti!

La scuola pubblica nel nostro paese versa, di anno in anno, in una situazione sempre più critica. Sono già suonate le campanelle che annunciano il nuovo anno scolastico in tutta la penisola. Nuovo anno ma problemi vecchi. 

Tra precari e supplenti è sempre più emergenza personale. Nonostante le oltre 180 mila assunzioni a tempo indeterminato effettuate negli ultimi 4 anni, anche quest’anno molte cattedre rimarranno scoperte e sarà necessario ricorrere ai supplenti. Si stima, infatti, che vi saranno tra le 150 e le 200 mila supplenze per l’anno in corso. A completare il quadro – non proprio roseo – della situazione della scuola pubblica, si aggiunge una retribuzione media, per docente, inferiore a quella dei propri pari europei. 

Per questi motivi, da molti anni e da più parti politiche, istituzionali e sindacali, provengono pressanti e unanimi richieste di aumento della spesa statale nell’istruzione, che ad oggi si colloca tra le più basse in Europa. Come sempre, in questi casi, il problema è però dove trovare i soldi per finanziare questo aumento di spesa.

La soluzione di ciò si troverebbe nella proposta del nuovo Ministro dell’Istruzione, che appare, ad un primo sguardo, logica ed equa:

Vorrei delle tasse di scopo: per esempio, sulle bibite gassate e sulle merendine, o tasse sui voli aerei che inquinano. L’idea è: faccio un’attività che inquina (volare), oppure ho uno stile di alimentazione sbagliato (merendine)? Metto una piccola tassa, e con questa ci posso finanziare delle attività utili, come la scuola o gli stili di vita più sani.

Il novello “Robin Hood” propone di togliere ai “ricchi” (cioè, oltre alle solite multinazionali che producono il c.d. “junk food” anche i genitori, che comprando le merendine prodotte industrialmente mettono a rischio senza accorgersene la salute dei propri figli) per dare ai “poveri” (cioè agli insegnanti che tengono in piedi il sistema scolastico italiano).

A chi, in fin dei conti, non sembra assolutamente corretto od equo un provvedimento del genere? Limitare l’assunzione di zuccheri e di cibi c.d. “spazzatura” da parte degli studenti e, contemporaneamente, aumentare lo stipendio dei docenti, semplicemente mettendo una tassa sulle merendine … sembra una grande vittoria! Sia per il nuovo ministro che per il governo appena insediato!

Capite bene, però, che ottenere una riduzione dei consumi e, allo stesso tempo, un maggiore gettito per finanziare l’istruzione, sono due cose contrastanti ed inconciliabili tra di loro! L’obiettivo della tassazione su dei beni potenzialmente dannosi per la salute, come le merendine ed i cibi o le bevande zuccherate, è quello di scoraggiarne il consumo tramite un aumento del prezzo. Se questo disincentivo funziona, le abitudini di acquisto dei consumatori si modificheranno, causando una diminuzione delle vendite del bene considerato poco salutare. In sintesi, più il disincentivo ha successo, minori saranno, dunque, le vendite; di conseguenza, il gettito derivante non potrà che diminuire! Ma così, come risultato finale, si avranno per forza meno risorse per finanziare l’istruzione! E non di più, come invece è stato detto.

Insomma, una tassa, magari con un aliquota abbastanza alta che sia in grado di scoraggiare l’acquisto di cibi potenzialmente dannosi, non sarebbe una soluzione alla mancanza di fondi per la scuola, ma l’esatto contrario!

A conferma di ciò, vediamo come nei Paesi in cui questa tassa è stata introdotta, si è verificata proprio la riduzione delle vendite ed il conseguente calo del gettito fiscale.

In Messico, dove questa tassa è stata introdotta nel 2014 con un’aliquota del 10%, si è registrato un calo delle vendite del 6% ed una conseguente diminuzione del gettito.

Nel 2011, nella civilissima e iper-progressista Danimarca, il governo ha introdotto un’imposta sugli alimenti che contengono troppi grassi saturi. Gli effetti sono stati disastrosi. I Danesi hanno iniziato ad acquistare gli stessi alimenti, ma nei paesi confinanti! E, per di più, l’occupazione nel settore è diminuita di oltre 1.000 unità. Il governo è stato quindi costretto a fare retromarcia e a cancellare la tassa.

Dunque, non solo la tassa sul c.d. “cibo spazzatura” non sarebbe affatto utile per aumentare gli stipendi dei docenti, ma rischierebbe, infine, di mettere in difficoltà o addirittura in crisi il settore, danneggiando le imprese ed i lavoratori che operano nel campo della vendita alimentare, oltre che ovviamente le stesse famiglie che, qualora non dissuase dall’aumento della tassazione, si troverebbero a dover spendere comuqnue di più per comprare le stesse cose. Tanto più se si considera che si è deciso di mentire anche agli insegnanti, promettendogli aumenti di salario con un sistema che, come si è visto, va a sottrarre risorse e non ad aggiungerne!

Già nel 1800, Frederic Bastiat ci metteva in guardia da questo tipo di politiche, spingendoci a notare non solo “ciò che si vede” ma anche “ciò che non si vede”. Le nuove leggi non provocano un solo effetto (quello desiderato da chi le promuove), ma una catena di eventi. Il primo effetto è immediato ed è il più facile da valutare; mentre i successivi verranno allo scoperto solo con il passare del tempo. Un bravo “policy-maker”, sia esso ministro, sia esso economista, deve essere in grado di valutare non solamente il primo, il più evidente e manifesto, effetto, ma tutta la catena ad esso conseguente, per stabilire la validità e la correttezza di un nuovo provvedimento.

Troppo spesso ci si ferma all’apparenza, concentrandosi solo su “ciò che si vede” e tralasciando, invece, proprio “ciò che non si vede”. La lezione di Bastiat, circa 200 anni dopo, è più che mai attuale, ed è necessario tenerla a mente, per evitare di essere presi in giro da una classe politica che, troppo spesso, tratta come ‘sudditi’ i cittadini, in questo caso i genitori e gli studenti.

Come proteggere la privacy dei consumatori e la sicurezza dei dati nell’era del 5G?

di Mikołaj Barczentewicz e Luca Bertoletti su Consumer Choice Center

Questo policy paper esamina i rischi correnti per la privacy dei consumatori europei, mostra come le presenti leggi siano insufficienti a proteggere e tutelare le persone nell’era della tecnologia 5G e propone linee guida su cosa si può fare, attraverso provvedimenti legislativi e altre misure politiche, per minimizzare la vulnerabilità nei confronti di perdite di dati e violazioni della privacy.

Raccomandazioni

  • I consumatori sono serviti al meglio se le politiche sono orientate ai risultati e sono basate sull’evidenza scientifica. Misure radicali come l’esclusione totale dei prodotti basata sul paese di provenienza dovrebbero essere considerate come extrema ratio.
  • Consigliamo di introdurre norme in materia di responsabilità per gli operatori e i rivenditori di software e dispositivi che espongono il consumatore al rischio di interferenze anche illegali. Si dovrebbe considerare la possibilità di introdurre una forma di responsabilità personale per i direttori d’azienda.
  • Standard di responsabilità dovrebbero essere accompagnati da certificazioni di sicurezza del software e dei dispositivi (come proposto dal “Cybersecurity Act” del Unione Europea): L’approccio proposto dalla Commissione Europea nelle sue nuove raccomandazioni sulla sicurezza dei network 5G è conforme ai nostri suggerimenti.
  • La promozione di algoritmi crittografici e di metodi di autenticazione sicuri dovrebbe comprendere una parte significativa degli sforzi volti a salvaguardare gli interessi dei consumatori.

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(*) Il Consumer Choice Center è un gruppo d’interesse a difesa dei consumatori che supporta le libertà negli stili di vita, l’innovazione, la privacy, la scienza e la libertà di scelta dei consumatori. Le principali aree politiche sono l’economia digitali, la mobilità, gli stile di vita e i beni di consumo, la salute e la scienza.

Il CCC consente ai consumatori di far sentire la propria voce nei Media e sul Web.

Il CCC rappresenta i consumatori in oltre 100 paesi in tutto il Mondo. Monitora da vicino le legislazioni in materia da Washington, Bruxelles e Ginevra.

“La Coca Cola me la porto a scuola”?

“La Coca Cola me la porto a scuola”?. Condividiamo questo saggio di un nostro caro amico che ci segue sempre, Giuseppe Portonera, Fellow dell’Istituto Bruno Leoni, pubblicato sul sito dell’istituto #brunoleoni.it.

Le banalizzazioni del ministro dello sviluppo economico sull’educazione alimentare

➡️ Leggi su brunoleoni.it il Focus completo

Di fronte alla platea di Coldiretti, il ministro dello Sviluppo economico, Luigi di Maio, ha detto che: «l’educazione alimentare si deve fare nelle scuole prima di tutto eliminando tutti questi distributori di cibo spazzatura che viene somministrato ai nostri figli» e che è «assurdo che un bambino nel corridoio della sua scuola abbia ancora un distributore di Coca Cola o prodotti non made in Italy». Piuttosto, «mettiamoci un bel distributore di succo d’arancia». 

In questo Focus si fa il punto su tre “facili verità” sollevate da Di Maio: quanto è spazzatura il cibo spazzatura? È vero che dove c’è la Coca cola non ci sono le arance (italiane)? È vero che dove c’è la Coca cola non c’è il made in Italy? 

In verità, c’è un problema di fondo più grande e importante dei termini dell’infelice dichiarazione di Di Maio, che – come chiarito in apertura – è rappresentato dalla banalizzazione del tema dell’educazione alimentare. È un peccato che un argomento così importante sia non solo svilito per il fine di inseguire qualche applauso a una convention o qualche titolo sui giornali, ma anche trattato secondo una direttrice che è facile riassumere in “meno libertà, più obblighi”.

Il “paternalismo” (soft o hard) che i nostri politici esibiscono ogni qualvolta si parla di educazione alimentare è dannoso sotto più profili: a parte il profilo della dubbia efficacia per il miglioramento della salute individuale, l’esempio delle dichiarazioni del ministro Di Maio – che, comunque, è il ministro dello sviluppo economico, non quello della sanità – dimostra che esso può rappresentare una minaccia anche alla crescita (seria e sostenuta) del paese.

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Giù le mani dai nostri risparmi

“Giù le mani dai nostri risparmi”. Condividiamo uno saggio del nostro National Coordinator per l’Italia, Giacomo Messina pubblicato su #LeoniBlog.

L’Euro e l’Europa avranno mille difetti e problemi, ma non sono la causa dei malesseri del nostro paese. Essi sono totalmente ed assolutamente autoinflitti. Essi sono causati da una classe dirigente che ha usato la politica economica ed i soldi dei cittadini Italiani per comprare voti e distribuire mance e favori ad amici ed elettori e da uno stato elefantiaco ed inefficiente che distrugge tutto ciò che i cittadini costruiscono e producono con sudore e fatica. Chi propugna soluzioni a suon di più debito e più deficit non sta proponendo nulla di nuovo, ma la solita ricetta trita e ritrita, che abbiamo avuto modo di vedere fallire nel corso degli ultimi 40 anni.

➡️ Leggi su Leoni Blog.it

La CONSOB è l’Autorità Italiana per la vigilanza sui mercati finanziari. Di conseguenza, dalla relazione finale del Presidente di suddetta autorità, mi aspetterei una visione d’insieme sulle performance passate, e sugli scenari futuri dei mercati finanziari e degli istituti di credito nel nostro paese. Al contrario, nella relazione del Presidente Paolo Savona, faccio fatica a trovare un riferimento al ruolo svolto dall’autorità che presiede e noto una preminenza di analisi e proposte di politica economica. Pertanto, il suddetto discorso, suona, alle mie orecchie, molto più simile alle “Considerazioni Finali” che una volta l’anno spettano al presidente della Banca d’Italia. Una sorta di “Contro-Considerazioni Finali” da parte del massimo esponente del “Contro-Apparato” che il governo gialloverde sta, chiaramente, tentando di costruire.

Detto quindi dell’incoerenza e dell’estraneità del discorso di Savona, rispetto alle funzioni che il suo organo dovrebbe svolgere, veniamo alla sostanza di quanto dichiarato dall’ex Ministro per gli Affari Europei del governo Salvini-Di Maio.

Pronti via e subito sentiamo di nuovo la storiella del gigantesco risparmio privato delle famiglie Italiane. Anche qui mi sorge subito un dubbio. Dove, di grazia, il Professore avrebbe preso il dato che afferma che il risparmio italiano sia pari a 16 mila miliardi di euro? La relazione di Banca d’Italia ed Istat parla di un ammontare pari a 9.743 miliardi di euro (Fonte: Banca d’Italia, PDF), di cui, oltre 5 mila miliardi investiti in abitazioni. Ora, andando oltre la prima imprecisione – di una lunga serie – del Presidente Savona, cosa ha a che fare il risparmio privato con il debito pubblico di cui si parla successivamente? Quando vi dicono che il debito non è un problema perché le famiglie italiane hanno un immenso risparmio, stanno paventando due ipotesi

La prima è quella di una patrimoniale. Lo stato si indebita, usa i nostri soldi per ingigantire sempre di più la già elefantiaca macchina statale, la già iper-inefficiente pubblica amministrazione, per elargire prebende e regali elettorali a destra e manca come fa da oltre 40 anni. Ma non c’è nessun problema state tranquilli! Appena la situazione dovesse divenire insostenibile, la soluzione sarà una patrimoniale. Cioè una tassa (ennesima) sul risparmio degli Italiani. Capito? Non solo finanziate tramite tasse ed imposte, giornalmente, lo stato ladro ed inefficiente, ma dovrete essere poi voi a mettere una pezza sui buffi fatti da chi ragiona come Savona e Co. rinunciando ai soldi che avete messo da parte, risparmiando ed investendo, per il vostro futuro e per quello della vostra famiglia.

La seconda soluzione non è molto diversa dalla prima. E prende la forma della cosiddetta “Repressione Finanziaria”, di fatto una patrimoniale mascherata sotto forma di “oro alla patria” di fascistissima memoria. Invece di imporci una tassa, lo Stato ci obbligherà ad investire esclusivamente in titoli del tesoro Italiani per finanziare, ancora una volta, il debito pubblico. 

Veniamo poi a quella che ritengo la principale contraddizione del discorso di Savona. Il Presidente della Consob ritiene che non vi sia un legame ottimale tra debito pubblico e Pil. L’importante è che, cito testualmente: “… il suo (del rapporto Debito/Pil, ndr) saggio di incremento deve restare mediamente al di sotto del saggio di crescita del Pil”.

Vi è una incredibile incoerenza di fondo. Se il saggio di incremento del Debito è inferiore a quello del Pil, allora il debito sta riducendosi. Quindi stiamo producendo surplus e non deficit (i.e. austerity).

Ma credo che qui il Professor Savona voglia dirci che non vi è, secondo lui, altra alternativa alla crescita economica che quella di accumulare debito e ribaltare così la dinamica esplosiva del rapporto Debito/Pil, agendo sul denominatore. Dinamica ampiamente smentita a livello teorico e pratico, potenzialmente devastante per il nostro Paese. Superfluo, poi, sottolineare che non esiste nessun paese che abbia ridotto il rapporto Debito/Pil facendo altro deficit – ma va!

Secondo tema che tengo ad approfondire è quello sulla, presunta, austerity e “virtuosità” fiscale del nostro paese. 

La spesa pubblica in Italia, al netto degli interessi, è aumentata in maniera costante e continua dal 1995 al 2018. Solo un paese ha fatto peggio di noi, la Grecia. Faccio fatica a considerare “virtuoso” un paese che ha ormai raggiunto e sfondato il tetto del 48% di spesa pubblica in rapporto al Pil. È vero, l’Italia è il paese che più tra tutti ha prodotto avanzi primari dagli anni 90 ad oggi. Ma ciò è dovuto principalmente a due fatti. Innanzitutto, negli anni ‘80 l’Italia ha prodotti ingenti disavanzi primari, mentre gli altri paesi spendevano meno di quanto guadagnassero. Ciò ha fatto si che si creasse un enorme stock di debito pubblico e, di conseguenza, la necessità di pagare sempre maggiori interessi sul debito. Da qui la necessità, negli anni ’90, di produrre avanzi primari, comunque mai sufficienti ripagare gli interessi. 

Glisso sul tema titoli di stato europei, che richiederebbe una trattazione a parte. Ci terrei, però, a far notare che l’Italia è stata una delle principali beneficiarie del programma di acquisti di titoli di stato dalla tanto vituperata, odiata ed antitaliana BCE. Nonostante questo enorme stimolo monetario, i rendimenti dei titoli di stato italiani sono rimasti molto alti. Praticamente gli unici in tutta la zona euro. Facciamoci due domande.

Faccio finta di non leggere un riferimento al fatto che l’IRI rappresentasse il fondo sovrano italiano, cosa che è chiaramente falsa, e vado alle conclusioni.

L’Euro e l’Europa avranno mille difetti e problemi, ma non sono la causa dei malesseri del nostro Paese. Essi sono totalmente ed assolutamente autoinflitti. Essi sono causati da una classe dirigente che ha usato la politica economica ed i soldi dei cittadini Italiani per comprare voti e distribuire mance e favori ad amici ed elettori e da uno stato elefantiaco ed inefficiente che distrugge tutto ciò che i cittadini costruiscono e producono con sudore e fatica. Chi propugna soluzioni a suon di più debito e più deficit non sta proponendo nulla di nuovo, ma la solita ricetta trita e ritrita, che abbiamo avuto modo di vedere fallire nel corso degli ultimi 40 anni.

Come la BCE continua ad incentivare l’irresponsabilità degli Stati

di Daniel Lacalle su Mises.org

La Banca Centrale Europea (BCE) sta continuando a gonfiare in modo sproporzionato la bolla del debito dell’Eurozona, mentre la congiuntura delle principali economie europee peggiora. Quello che è stato concepito come uno strumento per consentire ai governi di guadagnare tempo per realizzare riforme strutturali e ridurre gli squilibri, è diventato un pericoloso incentivo a perpetuare la spesa pubblica eccessiva e ad aumentare il debito, per due motivazioni pericolose quanto erronee: non c’è nessun problema finché il debito è a basso costo e non c’è inflazione.

Il basso costo dei prestiti non è una buona motivazione per aumentare il debito. Il Giappone ha un bassissimo costo del debito ed il costo del debito pubblico giapponese è quasi la metà delle entrate fiscali dello stato. Il debito del Giappone è 15 volte più alto del gettito fiscale raccolto dal governo nel 2018.

L’inflazione ufficiale dell’Eurozona dal 2000 mostra un aumento del 40% nell’IPC, mentre la crescita della produttività è stata trascurabile e gli stipendi e l’occupazione ristagnano.

La politica monetaria è passata, insomma, dall’essere uno strumento per sostenere le riforme ad una scusa per non attuarle.

È necessario rammentare che l’Euro non è una valuta di riserva globale. L’Euro è utilizzato solo nel 31% delle transazioni globali, mentre il dollaro USA è utilizzato nell’88%, secondo la “Bank of International Settlements” (la somma totale delle transazioni, come spiega la BIS nel suo rapporto, è del 200% perché ogni transazione coinvolge due valute).

I rendimenti obbligazionari nell’Eurozona sono mantenuti bassi artificialmente e danno un falso senso di sicurezza, offuscato da tassi di interesse estremamente bassi e da un eccesso di liquidità.

Il bilancio della Banca centrale europea è stato gonfiato fino a raggiungere il 40% del PIL della Zona Euro, mentre al picco del quantitative easing il bilancio della Federal Reserve non ha raggiunto il 26% del PIL statunitense.

Gli acquisti di buoni del tesoro della Federal Reserve non hanno mai superato le emissioni nette. La BCE continua a riacquistare obbligazioni una volta che maturano, nonostante abbiano moltiplicato i riacquisti e abbiano raggiunto un valore pari a 7 volte la cifra delle emissioni nette.

16 Titoli sovrani a dieci anni nell’Eurozona mostrano rendimenti reali negativi. La Grecia e l’Italia, gli altri due, sono esempi sorprendenti, poiché i loro rendimenti (corretti per valuta e inflazione) mostrano un differenziale trascurabile rispetto al bond decennale statunitense.

L’eccesso di liquidità nella Zona Euro supera i 18 trilioni di euro.

Tutto è giustificato perché “non c’è inflazione” eppure ce n’è, e parecchia. Non solo nelle attività finanziarie (come l’enorme bolla dei suddetti titoli sovrani), i prezzi nell’Eurozona sono aumentati del 40% dal 2000, mentre la produttività è aumentata di poco.

La possibilità di creare debito a basso costo non deve diventare una giustificazione per aumentarlo, ma un’opportunità per ridurlo.

Tuttavia, la situazione attuale fa sì che ci si adagi pericolosamente sugli allori, accumulando fattori di rischio a lungo termine.

La BCE continua ad ignorare il rischio di coda e a collezionare squilibri, aspettandosi ancora che la liquidità possa generare livelli di crescita e di inflazione che non sono stati raggiunti nemmeno dopo una serie di manovre espansive per duemila miliardi. Tutto ciò, mentre i pericoli insiti nella saturazione del debito si fanno sempre più vicini.

I governi dell’Eurozona identificano il basso tasso di rendimento come una sorta di conferma, da parte dei mercati, della validità delle loro politiche, quando in realtà questi sono semplicemente – e artificialmente – gonfiati dall’azione delle Banche Centrali. Un “effetto placebo”, insomma, che ha portato molti governi europei a ridimensionare la propulsione verso le riforme, e a credere che la via per rilanciare la crescita sia quella di tornare alla fallacia delle politiche del 2008.

Bassi tassi d’interesse non sono sinonimo di credibilità e sicurezza, ma prova della repressione finanziaria in atto e del timore di vedere l’ambiente macroeconomico indebolirsi ulteriormente.

Il problema principale sta proprio nel fatto che, per sostenere il suo processo di recupero, l’Eurozona si è affidata unicamente alla volatilità dei risultati dati da una politica economica basata sull’”effetto placebo”, concentrandosi su un unico obiettivo: abbassare il costo della spesa pubblica per renderla finanziariamente appetibile – obiettivo da raggiungere “whatever it takes”. Ciò fa sì che gli squilibri strutturali continuino a perdurare, che la percezione del rischio risulti falsata, e che l’economia perda dinamismo insieme all’aumento dei fattori di rischio sul lungo termine.

La BCE si ritrova, insomma, a dover fare i conti col “rovescio della medaglia” – o della moneta. Decidere per la normalizzazione significa privare i governi dell’illusione di stabilità data dai tassi bassi, ed incontrare quindi la loro resistenza. Di contro, lasciare la situazione immutata significherebbe ignorare il rischio che possa scoppiare un’altra crisi dell’Eurozona, stavolta nell’assenza più totale di strumenti atti a contenerla. È proprio per questi motivi che Francoforte deve affrettarsi ad alzare i tassi d’interesse, e smetterla di riacquistare i titoli in scadenza finché ancora gode della fiducia dei mercati.

Purtroppo, però, anziché proporre interventi sul versante della domanda, per ridurre la tassazione e l’effetto stagnazione dato dalla spesa pubblica, molti analisti continueranno a vedere nell’innalzamento della spesa e nell’aumento della liquidità una soluzione, che tuttavia finirà col rendere l’economia ancora più debole.

Il “rovescio della medaglia” dell’accumulo di debito a basso costo è che questo ha, sostanzialmente, gli stessi effetti di una bolla speculativa immobiliare: cela la liquidità e il rischio d’insolvenza reale, a fronte di condizioni di prestito troppo favorevoli per essere vere. Questo perché, appunto, non lo sono.

Articolo pubblicato in lingua inglese. Traduzione a cura di SFL Italia

Un “falco” alla BCE?

di Fabrizio Ferrari su Mises.org

Il primo di novembre, come è noto, si chiuderà l’”era-Draghi” alla guida della BCE, la Banca Centrale Europea. Di conseguenza, il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea dovrà accordarsi sulla nomina del successore; com’è altrettanto noto, vi è una forte pressione da parte degli stati del Nord Europa per sostituire Draghi – considerato come una “colomba” – con un “falco”, che sia quindi meno incline ad accomodare alle necessità di bassi tassi di rendimento sul debito pubblico dei paesi dell’Europa meridionale – o più precisamente, allo stato attuale delle cose, dell’Italia.

Ma quali motivi – se ve ne sono – legittimerebbero la scelta di un “falco” alla guida della BCE?

A ben vedere, e senza nulla togliere ai meriti di Draghi, il quale è stato chiamato – per l’ignavia e la pavidità dei politici italiani – a risolvere, con strumenti di politica monetaria “federale”, una crisi che avrebbe richiesto in eguale (se non superiore) misura l’intervento della politica fiscale nazionale, i motivi che richiederebbero un “falco” alla guida della BCE sono diversi:

Il primo. L’espansione monetaria, attuata massicciamente dalla BCE da marzo 2015 in poi, ha avuto, tra gli altri effetti, quello di produrre un’evidente alterazione dei prezzi relativi dei titoli di stato (ad esempio, i decennali) dei paesi europei, la cui misura inversa ci è resa nelle misurazioni dello spread; difatti, ad esempio, risulta difficile credere che sia unicamente giustificabile dalla presenza di fondamentali macroeconomici (quali, ad esempio, le prospettive di crescita del PIL ed il margine disponibile di incremento della pressione fiscale) l’esistenza di un divario tra titoli di stato decennali italiani e americani inferiore a quello tra titoli americani e tedeschi.

In altri termini, pare abbastanza evidente il consolidamento di un “effetto-Cantillon” (cioè, un’alterazione dei prezzi relativi conseguente ad un’espansione monetaria) nei mercati finanziari europei, sia per quanto riguarda le differenze tra i prezzi dei titoli di debito pubblico di diversi paesi—probabilmente inferiori a quelle implicate dai fondamentali—sia per quanto riguarda le differenze tra i prezzi dei titoli di debito pubblico e dei titoli di debito privato (a tal proposito, le figure 1 e 2 segnalano l’evidente prevalenza di acquisto di debito pubblico (Public Sector Purchasing Programme) all’interno del programma di QE della BCE, che va sotto il nome di Asset Purchasing Programme, o APP).

In sintesi, le azioni messe in atto dal QE (o APP) hanno beneficiato decisamente alcuni paesi (come l’Italia) che hanno potuto finanziarsi a basso costo—grazie al sostegno apportato alla domanda di debito da loro emesso—a scapito però, anche solo indirettamente, di altri paesi (come la Germania) e di parte del settore privato;


Figura 1: PSPP (la parte blu delle colonne) indica l’acquisto di titoli di debito pubblico



Figura 2: PSPP (la parte blu delle colonne) indica l’acquisto di titoli di debito pubblico

Il secondo. Da un punto di vista storico e politico, è ormai evidente che i paesi dell’Europa settentrionale, e la Germania in particolare, si sentano – legittimamente – presi in giro da anni di promesse non mantenute da parte, più che dei paesi meridionali, dall’Italia in particolare: difatti, l’Italia ha abbondantemente disatteso la promessa, fatta a Maastricht nel 1992 e rinnovata con ad Amsterdam nel 1997, di convergere in 20 anni ad un livello di debito pubblico su PIL pari al 60%, arrivando, anzi, ad un massimo storico post seconda guerra mondiale superiore al 132%. Senza troppi giri di parole, ai tedeschi (ed a chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale) appare evidente quanto segue.

L’Italia ha beneficiato dei bassi tassi di interesse (dal 12.2% di spesa per interessi nel 1993 al 3.7% nel 2018), della stabilità monetaria e dell’integrazione commerciale portate in dote dall’euro, senza offrire in cambio quell’unica contropartita (riduzione del debito e riforme strutturali) che tutti gli altri consociati le avevano richiesto per dare un senso al progetto. Nel do ut des (o sinallagma) alle fondamenta del patto sociale interstatale chiamato Euro, l’Italia ha preso quel che le serviva senza adempiere alle obbligazioni per cui si era impegnata;

Il terzo. Con la giustificazione della bassa inflazione, Draghi ha potuto soccorrere lo stato italiano e mantenere bassa la spesa per interessi sul debito pubblico; tuttavia, questo, soprattutto agli occhi dei tedeschi, ha un prezzo: difatti, non solo altera i prezzi relativi dei titoli come spiegato al primo punto, ma anche priva la BCE dello spazio di manovra monetaria e sui tassi di interesse che le potrebbe servire per attuare politiche monetarie anticicliche al prossimo rallentamento dell’economia europea.

Inoltre, pare difficile giustificare, sul piano teorico e politico, una stance di politica monetaria tesa alla stimolazione dell’economia dell’Eurozona in chiave anticiclica, soprattutto considerando che la base monetaria della BCE ha raggiunto (alla fine del 2018) un valore pari a 3.217 trilioni di euro (circa il 28% del PIL dell’Eurozona; la Fed, alla fine del 2018, aveva emesso base monetaria per un valoreinferiore al 17% del PIL statunitense), che l’Eurozona—seppur poco—cresce in termini reali e che, soprattutto, anche gli unici che crescono meno degli altri (guarda caso, l’Italia…) sono ormai al pieno impiego dei fattori (tasso di occupazione al massimo storico, output gap pari al -0.1% nel 2018, -0.3% nel 2019 e -0.1% nel 2020).

Infine, viene la ragione più importante di tutte, che riassume in larga parte i tre punti precedenti: purtroppo, come spiega Hayek diffusamente in “La Denazionalizzazione della Moneta”, le banche centrali hanno il potere di influenzare, tramite il loro monopolio sul controllo della moneta e dei tassi di interesse, l’andamento di alcuni prezzi relativi ad alto contenuto politico. Nello specifico, Hayek porta l’esempio delle inflazioni, che riducono i salari reali senza però attribuirne la colpa ai sindacati, che possono così evitare di pagare il peso politico della maggiore disoccupazione che le loro richieste salariali eccessive (rispetto alla produttività) causerebbero.

Nell’Eurozona è avvenuto qualcosa di molto analogo: l’attività di Draghi, tesa (anche se solo ufficiosamente) a tenere basso il costo del debito italiano, ha permesso alla politica nostrana di rinviare quelle riforme strutturali dell’economia e della spesa pubblica la cui procrastinazione, a condizioni di mercato, sarebbe stata fatta pagare a carissimo prezzo. Quindi, sia per la tranquillità dei risparmiatori nordeuropei, sia per la tenuta dell’unione monetaria e sia, soprattutto, per il bene dell’Italia, è giunto il momento di sostituire la “colomba” Draghi, madre amorevole ma troppo accomodante, con un “falco”, chiunque esso sia, che sappia vestire i panni di un’arcigna Signora di Rottermeier.

Articolo pubblicato in lingua inglese. Traduzione a cura di SFL Italia


Come la “Cannabis light” ha danneggiato gli spacciatori

I ricercatori delle Università di Salerno e di York hanno provato a stimare quanto la concorrenza del prodotto “Cannabis light” abbia strappato fatturato al mercato illegale.

Sulla carta, la “Cannabis light” in vendita in Italia può essere usata solo per scopi “tecnici” o “collezionistici”. Di fatto, è abbastanza ovvio che quasi tutti gli acquirenti la fumino. Con livelli di Thc (il principio attivo psicotropo) inferiori allo 0,6%, ma livelli di Cbd (che ha effetti rilassanti, ma non ‘sballa’) a volte superiori al 20%, il prodotto non può essere considerato una droga ma offre comunque quello che molte persone cercano nella marijuana, come ad esempio combattere l’insonnia o l’ansia.Con tutti i vantaggi di evitare effetti stupefacenti – magari sgraditi – e di non doversi rivolgere al mercato illegale.

A questo proposito, bisogna chiedersi quanto grande sia il giro d’affari che la Cannabis light ha strappato agli spacciatori. Alcuni episodi, come quello di Monterotondo, dove alcuni mesi fa un pusher ha incendiato un negozio di canapa, colpevole di fargli concorrenza, dimostrano che la questione c’è e va posta!

Tre ricercatori italiani hanno provato a dare una risposta con quello che è il primo studio mai attuato in merito.

La Ricerca

Vincenzo Carrieri e Francesco Principe, del dipartimenti di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università di Salerno, e il collega Leonardo Madio, dell’Università di York, hanno incrociato i dati forniti dalla polizia sui sequestri dei derivati illegali della cannabis su base provinciale con quelli sulla presenza dei negozi che vendono la Cannabis light a partire dal dicembre 2016, quando è entrata in vigore la legge che ha consentito la vendita di infiorescenze con una percentuale di Thc tra lo 0,2% e lo 0,6%.

I dati sono stati ponderati sulla base di fattori come la presenza di porti, dove avvengono i sequestri più ingenti, e condizioni ambientali che favoriscono la coltivazione di Cannabis e quindi l’approvvigionamento, a partire dalla presenza di corsi d’acqua. I numeri che contano sono soprattutto quelli raccolti a partire dal maggio 2017, quando era diventato disponibile il primo raccolto successivo a quella che lo studio definisce “liberalizzazione involontaria” e la vendita si era allargata dai negozi specializzati ai tabaccai e alle erboristerie, rendendo il mercato più omogeneo.

LINK ALLO STUDIO

Di quanto è calato il mercato illegale?

“L’Italia è un caso di studio interessante per via della presenza di una forte criminalità organizzata”

Come sappiamo, la criminalità organizzata trae la maggior parte dei suoi guadagni dalla vendita di stupefacenti, un mercato dove marijuana e hashish contano per il 91,4% del totale delle sostanze spacciate, per un giro d’affari di 3,5 miliardi.

Ancor più interessante è che la Cannabis light sia un “sostituto imperfetto” della Cannabis psicoattiva ma, nondimeno, è riuscita lo stesso a diminuire il giro d’affari dello spaccio in un Paese che ha tra i consumi più elevati d’Europa (il 19% dei giovani adulti, ovvero le persone tra i 18 e i 34 anni, contro una media UE del 13,9%)

“Abbiamo scoperto che la legalizzazione della cannabis light ha portato a una riduzione tra l’11% e il 12% dei sequestri di marijuana illegale per ogni punto vendita presente in ogni provincia e a una riduzione dell’8% della disponibilità di hashish […] i calcoli su tutte e 106 le province prese in esame suggeriscono che i ricavi perduti dalle organizzazioni criminali ammontino a circa 200 milioni di euro all’anno”

In una forbice stimata tra i 159 e i 273 milioni.

Si calcola inoltre che ad ogni negozio che vende la Cannabis light corrisponda un calo dei sequestri di Cannabis illegale pari a 6,5 chili all’anno. 

Una “sostituzione” inattesa

I numeri possono sembrare non così significativi, se paragonati a un mercato da 3,5 miliardi. I ricercatori sottolineano però che il vero impatto potrebbe essere molto più vasto, dal momento che la marijuana sequestrata rappresenta solo una parte minoritaria di quella disponibile sul mercato e che la Cannabis light è un “sostituto piuttosto imperfetto della marijuana disponibile sul mercato illegale”, avendo una percentuale di Thc minima e, quindi, “effetti ricreativi molto più bassi”.

Nondimeno…

“Le stime indicano che anche una forma lieve di liberalizzazione può soddisfare lo scopo di ridurre la quantità di marijuana spacciata e i relativi ricavi delle organizzazioni criminali”. 

Ecco quindi – inatteso – l’“effetto di sostituzione” nella domanda tra “Cannabis light” e “Cannabis di strada”, il cui contenuto di Thc è aumentato negli ultimi anni, con una media del 10,8% e picchi del 22%. Ciò lascia intendere che ci sono consumatori che preferiscono il prodotto legale proprio in virtù degli effetti più blandi.

Questo, affermano i ricercatori…

“Suggerirebbe alla politica un approccio misto alla legalizzazione, che da una parte dirotti i consumi illegali verso quelli legali, danneggiando il mercato nero, e dall’altra riduca le esternalità negative associate con l’uso e l’abuso di queste sostanze”.

Dove orientare la Ricerca

La ricerca sul settore è però appena iniziata e non offre elementi sufficienti a stimare i possibili benefici di una legalizzazione più ampia, sul modello di Canada e alcuni Stati degli Usa, fanno sapere i ricercatori.

Studi futuri, conclude il rapporto…

“… potrebbero indagare, nel contesto italiano, l’efficacia di questa blanda forma di legalizzazione sui crimini violenti e non violenti. Questo aspetto assume, per esempio, una rilevanza nel lungo termine, con una più efficiente allocazione delle risorse della polizia verso la repressione e la prevenzione di altri crimini”.

Ed infine…

“… sarebbe positivo stimare le entrate fiscali potenzialmente perdute, il che potrebbe essere un altro argomento a favore della liberalizzazione soprattutto in tempi, come quelli attuali, di stretti limiti alla politica di bilancio.”

Tratto da agi.it

Conclusioni

Ancora una volta, vogliamo sottolineare che il problema “droga” non si sconfigge con la proibizione. E questo studio lo ha ampiamente dimostrato, seppur analizzando una liberalizzazione “minima”.

Con il proibizionismo, invece, si può restare a guardare solo come si alimentino le mafie ed il narcotraffico.

Ecco perchè non bisogna punire chi commercia onestamente e segue le regole; e la lotta alle mafie non può passare attraverso la punizione di innocenti che con le mafie nulla c’entrano.

C’è un mercato nero, a cui nessuno riesce a mettere i sigilli, e che è aperto tutti i giorni, anche di notte, per vendere un prodotto “che sballa” e che fa male. Ma chi compra la “Cannabis light” sta cercando altro. Sono persone adulte, con piccoli problemi di salute, insonnia, dolori muscolari, persone che vogliono smettere di fumare sigarette, o persone che hanno un cattivo rapporto con il thc. Perchè punirle?

Everest S.p.a.

“Solo tra mercoledì e giovedì scorso almeno due persone, un uomo e una donna, sono morte sull’Everest per le troppe persone presenti sulla montagna, che hanno causato lunghe code costringendo centinaia di alpinisti a passare ore fermi in attesa al gelo prima di poter proseguire con la salita o la discesa. Donald Lynn Cash, americano di 54 anni, e Anjali Kulkarni, indiana della stessa età, sono morti entrambi durante la discesa, dopo aver passato ore in fila a più di ottomila metri: la cosiddetta “zona della morte”, dove l’aria è così rarefatta che ogni piccolo sforzo richiede un enorme dispendio di energie.

L’affollamento della montagna è un problema vecchio e noto, ma il governo nepalese non è ancora riuscito a risolverlo. 

Ogni alpinista che vuole scalare la montagna deve richiedere un permesso al governo pagandolo circa 11 mila dollari. Moltiplicati per le centinaia di richieste annuali, i permessi sono una notevole fonte di introiti per il paese, che è sempre stato restio a fare l’unica cosa che secondo molti risolverebbe il problema: ridurli drasticamente. 

Ma in realtà, c’è una soluzione alternativa

Anche in Nepal, lo scopo principale di chi governa non è fare poco per creare le migliori condizioni possibili, ma arricchirsi sulle spalle di chi ci vive e transita. 

Ebbene, noi abbiamo trovato una soluzione per evitare nuove morti e risolvere la situazione dal punto di vista economico: privatizzare l’Everest! 

Questa soluzione condurrà inevitabilmente ad un aumento del prezzo dei permessi, al fine di non congestionare la scalata. Questa minore congestione diminuirà anche le possibilità che chi affronta l’Everest muoia nell’attesa.

Stiamo proponendo qualcosa di folle? Niente affatto! 

Nel governo nepalese, infatti, c’è chi questa proposta la porta avanti da anni: qualche voce all’interno del Ministero del Turismo che, però, finora è rimasta inascoltata. E l’idea non sarebbe la privatizzazione del solo Everest, ma delle più di 1300 vette presenti sul territorio Nepalese.

Link della proposta

Cassazione: E’ reato vendere la Cannabis light. E ora chi paga?

Brusco stop alla crescita della filiera della cannabis sativa: la Cassazione ha dato l’alt! alla vendita di olio, resina, inflorescenze e foglie, ed ora a pagare è un settore nato da pochi anni ma che già impiega, lungo tutta la filiera, dal campo al negozio, circa 10.000 persone, e crea un un fatturato da 150 milioni di euro l’anno (un settore ancora di “nicchia”, ma in veloce crescita). A rischio chiusura dunque non solo negozi e rivenditori online, ma l’intera filiera dei prodotti derivati dalla “cannabis sativa L” (che deve avere un tasso di Thc tra lo 0,2 e lo 0,6%).

Tutto questo perché la norma sulla coltivazione di questa pianta non li prevede tra i derivati commercializzabili: rimane, com’è giusto dire, “muta”. Ma non è il classico “nel silenzio della legge, tutto è concesso”, è un silenzio pericoloso, perchè, lo sappiamo bene, incombe l’ormai noto a tutti “Testo Unico sulle droghe” del ’90. 

Che cosa ha detto la Cassazione?

Il punto di partenza di questa pronuncia a Sezioni Unite della Cassazione è stato proprio la legge sulla coltivazione della canapa (legge n. 242/2016), che mirava a facilitarne la coltivazione al fine di consentire l’uso di alcune parti ma, nel fare ciò, veniva aperta la possibilità (a quanto pare solamente in via interpretativa) di commercializzare parti della pianta notoriamente contenenti “principi attivi droganti”, fissando un limite specifico di principio attivo entro il quale la coltivazione era da ritenere lecita. Per effetto immediato di questa nuova legge, sono sorti molti negozi di ‘canapa light’. 

La pronuncia delle Sezioni Unite chiude un dibattito giurisprudenziale che si era sviluppato attorno a questa legge (a colpi di sentenze tra loro discordanti); e lo chiude in maniera assai netta e di estrema chiusura:

“La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della […] canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole […] e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”. Il fatto però che questi derivati non fossero espressamente vietati ha spinto alcuni negozi a iniziare le vendite.

Di conseguenza, “integrano il reato di “produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope”, le condotte di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa, salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”. Un passaggio questo che farà discutere.

Cosa succederà adesso?

Teoricamente in base alla decisione della Cassazione, che deve ancora depositare la motivazione, già da oggi le forze dell’ordine possono sequestrare nei negozi i prodotti della cannabis sativa vietati e denunciare chi li vende. Il Testo di riferimento non torna dunque ad essere (come alcuni dicono) bensì rimane sostanzialmente quello Unico sulle droghe, il “famoso” dpr 309/1990.

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La politica dovrebbe adeguarsi alla società

Merita citare a riguardo il pensiero di Alberto Mingardi (IBL) (La Stampa, 31 maggio 2019)

L’unica cosa certa, in questo momento, è l’incertezza. In Italia ci sono migliaia di esercizi commerciali che hanno aperto presumendo di non commettere alcun illecito.

Esiste una filiera, che d’improvviso si scopre in una terra di nessuno. Che dirà la politica a chi ha impiegato, in perfetta buona fede, i propri risparmi per aprire un’attività di questo tipo? Il nostro è un Paese nel quale la classe dirigente chiama “vittime” individui adulti che avevano investito nelle sei banche fallite e decide di indennizzarli, a carico della collettività. Che fare allora con persone che si sono convinte che le regole del gioco siano cambiate a partita iniziata?

Non avrebbero, paradossalmente, più titolo loro ad essere rimborsate? In tutto l’Occidente, la tendenza generale va nella direzione di una depenalizzazione della marijuana. Negli USA l’uso della cannabis per scopi medici è legale in trentatré stati, l’uso a scopo ricreativo è permesso in dieci, fra cui Washington DC, la capitale dell’impero. Questo riflette un cambiamento profondo nelle abitudini delle persone, che in larga misura ormai considerano questo “vizio” fra quelli ammissibili, persino meno disapprovato del fumo di sigaretta.

In Italia l’uso a scopo ricreativo è vietato ma proprio la moltiplicazione dei negozi di “cannabis light” testimonia forse come la sensibilità al tema è mutata. Ci sono momenti nei quali le regole formali debbono adeguarsi alle norme sociali. È improbabile che questo avvenga nel nostro Paese, dove la cannabis segna l’ennesima frattura fra i due partiti di governo. I quattrini, le aspettative, le speranze di quei quindicimila appaiono un dettaglio trascurabile. Del resto, si tratta solo d’imprenditori privati.

Conclusioni

I complimenti (sarcastici) vanno fatti a chi ha scritto la legge del 2016. D’altronde dalla Suprema Corte di Cassazione non ci si poteva aspettare altrimenti: troppo spesso, infatti, è chiamata a “fare politica” e a supplire, prendere il posto, del legislatore per colmare i vuoti, pur non rivestendo (formalmente) i panni del potere legislativo, specialmente nei settori che hanno a che fare con le scelte individuali di ciascuno e che vengono colpevolmente dimenticati o deliberatamente trascurati dal nostro legislatore. 

La lacunosa legge intorno alla quale è fiorito questo mercato nulla dice sulla commercializzazione dei derivati della canapa e, inoltre, non interviene sull’uso ricreativo della sostanza – tema che in Italia non si è mai voluto affrontare in maniera decisiva – e che, ça va sans dire, rappresenta il “carburante” di questo genere di commercio.

In un quadro normativo del genere, la Cassazione non ha potuto non prendere una posizione, complici anche il disordine portato da una serie di sentenze, contrastanti tra loro, provenienti da delle sue singole sezioni (ecco perché l’intervento della Sezioni Unite).

E, tuttavia, non possiamo dimenticare, come ci ricorda Mingardi, che è stato proprio lo Stato a consentire a questi negozianti di aprire, nonostante una legge lacunosa, a cui hanno anche cercato – invano – di porre rimedio con codici di autoregolamentazione.

Giusta la conclusione a cui approda Simone Cosimi di Wired.it

“Ma l’altro lato della questione è esattamente questo: perché in Italia dev’essere tutto appeso alle sentenze? È mai possibile che interi pezzi di business per un certo periodo di tempo tollerati e per certi versi promossi possano saltare perché chi dovrebbe scrivere le leggi non ne cura l’impatto, la qualità, gli effetti sul medio-lungo periodo, le parti volutamente o meno lasciate in silenzio?”

Perché i Poveri devono vivere in Case Brutte?

Uno dei tanti temi che ha più riempito i notiziari in questi ultimi tempi è quello dell’edilizia residenziale pubblica, ovvero edilizia popolare, e cioè quelle operazioni di edilizia che vedono l’amministrazione pubblica offrire ai cittadini delle soluzioni abitative a basso costo.

Nel giro di una settimana si sono susseguiti due fatti eclatanti: ovvero, le proteste da parte dei residenti del quartiere di Casal Bruciato a Roma, cui si è aggiunta una mobilitazione da parte di un gruppo fascistoide, contro una famiglia di origine rom a cui era stato assegnato, attraverso un bando del Comune, un alloggio popolare; ed il gesto del card. Konrad Krajvesky – elemosiniere del Santo Padre (ufficio della Santa Sede che ha il compito di esercitare la carità verso i poveri a nome del Papa) – che ha rischiato la propria incolumità per riattaccare l’elettricità in un edificio occupato (e quindi pieno di abusivi).

Per parlare di questo tema pensiamo si debba partire da due punti fondamentali:

Il primo è che la proprietà privata è sacra ed inviolabile; il secondo è che l’edilizia popolare pubblica, in ultima analisi, nonostante le buone intenzioni che vi stanno dietro, porta comunque alla creazione di profondi disagi e tensioni sociali. Un altro punto che, in realtà, bisognerebbe tenere a mente, è che, come diceva Milton Friedman, “non esistono pasti gratis”.

Andiamo ora, perciò, a vedere perché l’edilizia popolare “non s’ha da fare” e cosa può essere fatto, invece, per aiutare chi non ha i mezzi economici per garantirsi un tetto sopra la testa: che è poi il fine ultimo di tutte le proposte politiche che ascoltiamo, ma che, sovente, non risolvono mai alcun problema.

C’è chi dice che la Casa – come migliaia di altre cose, oramai – sia un “Diritto”. Questa affermazione, tuttavia, è errata.

Non sta scritto da nessuna parte, nemmeno nella nostra Costituzione, “la più bella del mondo” (sic!), che debba essere fornito un alloggio ai meno abbienti. Ci ha però pensato la nostra Corte Costituzionale a riempire quella mancanza, da Paese del Socialismo reale quale siamo. Ed infatti, possiamo leggere un profluvio di belle e giuste affermazioni (per carità): “… è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione” (Sent. n. 49/1987); oppure “Il diritto all’abitazione rientra, infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (Sent. n. 217/1988); “Il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (Sent. n. 119/1999), e via discorrendo…

Tutte cose giuste e vere, bellissime… che si sono tradotte in? Nulla, assolutamente il nulla. Nessuno di questi richiami ad diritto alla casa è servito, nella realtà, a concretizzare un vantaggio palpabile per chi la casa la chiedeva. Questo ci dovrebbe far capire quanto i “diritti” siano bellissimi scritti su carta, ma poi, alla fine del paragrafo, li devi anche concretizzare… e se non si sa come concretizzarli, è un bel problema!

Quindi la Casa è un diritto? E se sì, si tratta di una richiesta sensata ed eticamente da appoggiare?

La risposta è No! Se si accetta che chiunque abbia diritto ad un’abitazione, significa dire non solo che si caricano gli altri, che una casa ce l’hanno e se la sono pure pagata (che strano!) di pagare per chi, invece, non può (o non vuole!) per ragioni di giustizia sociale, ma si dovrebbe accettare anche – dato che le risorse sono scarse e non si possono costruire case popolari ad libitum – che in caso di neccessità la proprietà privata possa essere violata per una qualunque ragione – e che quindi il modo migliore per garantirsi una casa sia di occupare una abusivamente o, peggio – come alcuni suggeriscono – che un Ente dello Stato possa espropiarla a chi la tiene (magari abbandonata) per darla a chi ne ha bisogno, sempre per ragioni di giustizia sociale. Una situazione da regime comunista puro.

Ma, se la casa non te la paghi e, anzi, o te la costruisce qualcuno che soldi propri non ce ne rimette o te la occupi pure, si arriva al punto che chiunque possa dichiarare di aver diritto all’alloggio che più gli si confà. E quindi perchè non occupare abusivamente la terrazza Campari a Milano? Perché tanto chi beve lì lo spritz può andarselo a bere anche da un’altra parte, tanto i mezzi economici li ha… e poi vuoi mettere con la vista Madonnina?

Torniamo, dunque, per un attimo, all’affermazione per cui “non esistono pasti gratis”. Infatti, nel corso dei decenni la cultura del “Welfare State” ha instillato nelle menti di molte generazioni l’idea che esso sia una sorta di “cornucopia”, per cui non c’è bisogno di preoccuparsi per il futuro (degli altri, ovviamente). Un esempio sono proprio i progetti di edilizia residenziale pubblica, che sono stati spesso presentati come “gratuiti”. Ovviamente lo scopo non era quello di dare una casa (come se non esistesse o fosse mai esistito un mercato edilizio fiorente, sopratutto se parliamo degli anni ’50-’60-’70 – quando si inaugurò la stagione dello ‘Stato impresario’), ma quello di creare un blocco di persone a carico, dipendenti dalla mano pubblica e per questo a lei grati.

Ma nesuno si è preoccupato di dire loro in che modo lo Stato soddisfacesse i loro bisogni: con le risorse sottratte ad altri. Anzi, istituzioni, cariche dello Stato, politici, sindacati, partiti – nel corso dei decenni – si sono preoccupati di nutrire queste persone con belle parole, con un sacco di “diritti”, in modo che fossero loro riconoscenti e che in cambio non facessero mancare il proprio sostegno elettorale… ma chi poi ha pagato per tutto questo?

Queste “istituzioni” hanno avuto poca comprensione economica, non sanno che la produzione deve necessariamente precedere il consumo. Invece lo Stato ha incoraggiato questa filosofia di pensiero – in modo che gli elettori percepissero un senso di euforia immediato – e quindi infischiandosene del futuro. Eh sì, perché va ricordato che, per quanto buone le intenzioni possano essere, ogni intervento pubblico va considerato come un modo per consolidare, o spostare verso di sé, il consenso dell’elettorato.

Il risultato di tutto questo? Basta farsi un giro nelle nostre periferie… (alla meglio) belli i casermoni? i palazzoni fatiscenti? (alla peggio) le vele di Scampia? il Corviale? gli ZEN?… già perchè se tanto mi da tanto, fai già che per molti è comunque meglio che sia lo Stato a costruire le case – seppur brutte, piccole e malfamate dove piazzarci i poveri, “però almeno avranno un tetto sulla testa” – piuttosto che ad occuparsene sia il Mercato. E tutto questo anche a costo di lasciare tutto, specie nei contesti più degradati, a criminalità ed abusivismo, in poche parole – qui sì – alla vera “legge del più forte”.

Ma, oltre ai luoghi fatiscenti e malfamati, si aggiunge il problema che, con l’attuale sistema dei bandi, capita molto spesso che una famiglia riceva un appartamento perché soddisfa i requisiti e poi resti lì vita natural durante, anche quando il loro bisogno è cessato e altri ne avrebbero più diritto.

Al netto di tutto ciò, c’è ancora chi persevera con l’idea per cui, in realtà, l’edilizia pubblica nel nostro paese sia di dimensioni minori rispetto ad altri paesi (l’esempio della Francia si fa di solito) e che, anzi, servirebbe che lo Stato s’impegnasse a costruire di più! A questi signori basterebbe ricordare che il fallimento dell’edilizia pubblica è sotto gli occhi di tutti, oltre al fatto che quartieri dell’edilizia popolare costano uno sproposito alla collettività, offrono abitazioni di bassa qualità, creano autentici «ghetti» e diventano occasione per occupazioni illegittime, oltre al fatto che ci sono migliaia gli appartamenti vuoti a causa della cattiva gestione degli enti pubblici (altro che espropriare gli immobili sfitti o abbandonati dei privati!)

Ma cosa fare, ovviamente, se talune famiglie non possono permettersi gli affitti o le rate di un mutuo?

Innanzitutto, ricordarsi che è proprio l’intervento pubblico a tenere alti, o alzare, questi prezzi. Ci sono tanti modi in cui questo viene fatto: dalla semplice inflazione, dovuta alla politica monetaria (nel nostro caso decisa a livello europeo), ai divieti che non permettono all’offerta di incontrarsi con la domanda. In un mercato non regolato, infatti, nel momento in cui affitti e prezzi cominciano ad aumentare, i costruttori di case costruirebbero altri alloggi per soddisfare la crescente domanda. Noi, però, viviamo in società iper-regolate e il mercato immobiliare non è da meno.

Si potrebbe dunque eliminare del tutto l’edilizia popolare, permettendo di costruire abbastanza edifici in modo da incontrare la crescente domanda di alloggi: purtroppo non c’è la volontà politica per farlo; è più facile continuare a regalare “diritti” a spese dei contribuenti.

Altre soluzioni potrebbero essere la dismissione degli immobili pubblici, così da disporre di risorse da reinvestire in settori più remunerativi e destinarne i ricavi alle famiglie in difficoltà. Soldi invece che case. Questo sistema favorisce di più la famiglia bisognosa, che, ricevendo denaro per cercarsi autonomamente un’alloggio, può trovare un appartamento confacente alle proprie esigenze, laddove invece la gestione pubblica non è in grado.

Si pensi al diverso valore delle case popolari rispetto a quello di un appartamento offerto dal mercato privato (che a volte sono manufatti dal valore superiore – nei Comuni più virtuosi e fuori Città) o alle esigenze di una persona anziana o disabile, che potrebbe quindi scegliere un appartamento al pianterreno, piuttosto di accontentarsi di un posto offerto dal Comune, ma magari all’ultimo piano e senza il montascale. Per giunta, c’è il vantaggio – non trascurabile – che la famiglia bisognosa potrebbe cercare un’alloggio nel quartiere in cui ha gli affetti ed il lavoro, e non dovrebbe dunque trasferirsi laddove si sia liberato un appartamento offerto dal Comune. Da ultimo, ci libereremmo dai carrozzoni pubblicci (come l’ATER o l’ALER) pieni di debiti ed insolventi.

Interessante in questo senso anche la proposta dell’Istituto Liberale – L’individualista Feroce di istituire un “Buono Affitto” un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione, sotto forma di tiket (come il “buono scuola” o i “buoni pasto”), tenendo comunque presente la necessaria temporaneità del sostegno (due o tre anni) in modo da ridurre i costi a carico della collettività. Certamente, anche nell’erogazione di aiuti finanziari ci potrebbero essere degli abusi, ma è più facile disdire un bonifico che sgomberare un edificio.

L’ultimo motivo per chiedere l’eliminazione dei programmi di edilizia popolare è relativo ai disagi sociali che questi creano. Infatti, nel momento in cui concedi un “diritto” a qualcuno, tutti ritengono di poterne e doverne avere accesso.

Ed è per questo motivo che, per quanto noi riteniamo il comportamento di Casapound estremamente riprovevole, non ci si può sorprendere quando vediamo scene di questo tipo: è l’edilizia popolare in sé stessa che crea scontri tra chi è assegnatario di un alloggio e chi, invece, rimane fuori.

Per quanto riguarda, invece, il gesto dell’elemosiniere del Papa non bisogna chiedersi se sia legale o meno: non è attraverso la legge che dobbiamo interpretare quello che succede, ma attraverso il buon senso (che talvolta può anche tradursi in legge, ma non è chiaramente così nel caso dei programmi di edilizia pubblica). Il cardinale Krajvesky ha sbagliato, ma non per il fatto che abbia violato una qualche norma del codice penale, ma perchè: primo non è giusto usufruire di un servizio – qualunque esso sia – se non lo si paga; secondo, perchè i costi delle bollette evase e non pagate finisce comunque sulla “groppa” di chi le paga e le ha sempre pagate. Ancora una volta va ricordato che “non esistono pasti gratis”, e il cardinale si è fatto “bello e buono” con i soldi degli altri (poteva semplicemente accollarsi i debiti delle bollette non pagate, invece che scaricare i costi del suo gesto, ancora una volta, sulla collettività).

Insomma, i motivi per eliminare questi programmi sono tanti. Il problema dell’“housing affordability” può essere risolto solo tramite un processo di Mercato, con l’incontro di domanda e offerta… ma lo si deve lasciar lavorare.

Ci chiediamo, dunque, alla fine di questo discorso, se ci sarà mai la volontà politica di affrontare questo cambiamento, diminuendo il ruolo della politica e di leggi, piani e regolamenti, e presentando infine il conto dei tanti pasti scroccati a chi deve sempre e comunque pagare per tutti.