Un assetto federale per la Lombardia

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Un assetto federale per la Lombardia

La Confederazione svizzera, dal punto di vista istituzionale, assume spesso il ruolo della pecora nera d’Europa. Infatti, nonostante il suo territorio e la sua popolazione equivalgano grossomodo quelli della Lombardia, la Svizzera è divisa dal 1979 in 26 Cantoni; lungi dall’essere semplici regioni italiane o dipartimenti francesi, ciascun Cantone ha un proprio parlamento, una propria costituzione, elezioni e referendum autonomi, e sistemi di immigrazione, sanità e aiuto sociale sostanzialmente indipendenti. Il governo nazionale, composto da una camera di deputati e da una camera di rappresentanti cantonali, ha costituzionalmente mandato di intervenire solamente in quelle mansioni e aree che riguardano gli affari di due o più Cantoni (come la difesa militare, la politica monetaria, le infrastrutture nazionali). Il grande principio che sta alla base di questo assetto è il così detto principio di sussidiarietà: il governo deve occuparsi solamente di quei casi in cui le comunità locali non hanno modo di agire efficacemente in autonomia. Le leggi, secondo questo principio, devono essere soluzioni pratiche per i problemi che nascono qua e là sul territorio, generate dalle persone che ne sono direttamente coinvolte. Questo garantisce che si prenda cura delle difficoltà locali chi ha un interesse diretto nella propria risoluzione, nonché chi conosce effettivamente le peculiarità e le esigenze particolari del luogo.

Questo assetto fortemente federale è molto diverso dalla norma degli Stati nazionali europei che circondano la Svizzera. Non c’è da stupirsi, tuttavia, che le realtà confinanti come la Lombardia talvolta guardino con ammirazione l’efficienza di questo mondo politicamente così diverso e si interroghino sulla sua applicabilità. Del resto, non solo la Lombardia, con 10 milioni di abitanti circa e 23844km2 di estensione, è molto simile alla demografia della Svizzera (8.5 milioni di abitanti circa e 41291km2 di estensione). I due territori hanno anche una geografia, fisica e umana, paragonabile: circa la metà del territorio è alpino e presenta le peculiarità delle comunità montane, mentre la metà restante è popolata da centri urbani metropolitani, trasporti facilitati da pianure estese, e una produzione industriale più intensiva. Così come la Svizzera spazia dalle valli dei Grigioni e del Vallese ai centri finanziari che sono Zurigo e Ginevra lungo l’Altopiano svizzero, la Lombardia parte dalla Valtellina e dalle Orobie per arrivare alle esigenze cosmopolite di Milano e Brescia.

La controprova della compatibilità del sostrato sociale lombardo con le istituzioni tipicamente svizzere giunse, se ce ne fosse bisogno, anche dal Cantone italofono, il Ticino. Incastonato nella Lombardia settentrionale, e per lungo tempo addirittura territorio del Ducato di Milano, condivide con la regione italiana lingua, paesaggi, cultura (particolarmente affine, ovviamente, a modi e tradizioni dell’Insubria) e clima. Eppure, questa porzione di Svizzera delle dimensioni della provincia di Cremona (entrambe con circa 350000 abitanti), possiede un PIL pro capite di circa 82400 CHF, contro il PIL pro capite della Lombardia che ammonta a circa 39700€. Politicamente parlando, il Ticino è virtualmente autonomo su aspetti cruciali della vita quotidiana dei suoi cittadini, dalle politiche migratorie e del lavoro, alla sanità, all’amministrazione pubblica.

È del 2015 la proposta, lanciata dalla Lega, di studiare la fattibilità di dividere la Lombardia in 8 Cantoni per perseguire una simile decentralizzazione politica. La proposta è rimasta sostanzialmente inascoltata, nonché criticata in quanto non avrebbe realmente garantito il livello di autonomia decisionale e ripartizione dei compiti che permettono alla Svizzera la sua proverbiale efficienza e presenza sul territorio. Ma interroghiamoci su quali sarebbero i vantaggi dell’importazione, a livello per lo meno amministrativo, di un vero assetto federale in Lombardia.

Innanzitutto, a livello generale, ovvero se questa impostazione venisse estesa a tutte le regioni italiane per quanto riguarda per lo meno la gestione dei servizi pubblici (secondo il famoso “federalismo fiscale”), la Lombardia avrebbe accesso a fondi molto maggiori. Questo permetterebbe, nel lungo periodo, di stimolare investimenti e crescita in tutti i settori dell’economia, con esternalità positive anche sulle altre regioni – che verrebbero favorite dalla presenza di opportunità produttive e posti di lavoro generate da una maggiore prosperità economica nel cuore finanziario e industriale italiano. Va infatti ricordato che la Lombardia è l’area d’Europa col più alto residuo fiscale assoluto, a 54 miliardi di euro (ovvero, il disavanzo negativo tra il gettito fiscale totale della regione e il valore ricevuto dal governo nazionale in termini di spesa pubblica). Questo effetto negativo a scapito della produttività lombarda è una conseguenza diretta dell’atteggiamento nemico del principio di sussidiarietà dell’assetto istituzionale italiano: le stesse leggi e gli stessi servizi vengono gestiti e pianificati a livello nazionale, per poi venire applicati a culture, località, necessità e tessuti socioeconomici tra i più diversi.

Se si applicasse la logica del federalismo anche all’interno della Lombardia, si potrebbero allentare certe tensioni e contraddizioni che colpiscono molti servizi pubblici all’interno della regione. Il sistema lombardo dei trasporti, per esempio, gioverebbe da una pianificazione delle opportunità di ampliamento e di concessione delle licenze operato da istituzioni basate sul territorio. Chiaramente, le esigenze in merito della città di Milano e della frastagliata provincia di Lecco sono molto distanti tra loro. Se la competenza di assegnazione dei fondi e dei progetti è, com’è ora, di fatto centralizzata, non c’è interesse da parte dell’ente di studiare soluzioni ottimali per ogni territorio particolare, anziché applicare un unico modello e un’unica soluzione per tutti – con risultati di qualità variabile. Con la conseguenza che, spesso, i bisogni delle comunità minoritarie vengono ignorati: l’unico criterio di progettazione degli interventi pubblici diventa quello utilitarista di concentrare fondi e modalità d’investimento laddove possano favorire più persone, anziché incentivare l’attivazione di soluzioni adatte a massimizzare le possibilità delle comunità locali.

Massima espressione di questa mancanza, forse ancor di più, è la normativa di gestione del sistema sanitario a livello regionale tutt’ora in vigore in Lombardia: la distribuzione degli ospedali del territorio viene fatta dipendere, secondo una logica astratta, dalla densità di popolazione. Col mandato di erigere un distretto ospedaliero ogni 100000 abitanti, con la sola deroga a un distretto (di complessità specialistica significativamente inferiore) ogni 20000 abitanti nelle “aree montane”, si ottiene il paradosso della provincia di Milano servita da 30 ospedali e del residente dell’Alta Valtellina che, qualora i progetti di depotenziamento dell’ospedale di Sondalo (SO) domandati dalla normativa vigente si concretizzassero, può sperare in un tempo medio di arrivo al nosocomio di Sondrio che va dai 60 minuti circa di Bormio (SO) ai 120 minuti di Livigno (SO).

Emanuele Martinelli

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