Marxismo culturale e le radici decostruzioniste del capitalismo

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Marxismo culturale e le radici decostruzioniste del capitalismo

Introduzione

Oggigiorno, nei circoli politici di destra (sia di marca libertaria che conservatrice), si sente spesso parlare – e sempre negativamente – del cosiddetto “marxismo culturale”. Fra gli accademici che più ne discutono, soprattutto in occasione di articoli, lezioni universitarie, apparizioni mediatiche, etc, agevolandone così la diffusione concettuale su vasta scala, spiccano lo storico e filosofo americano Paul Gottfried e lo psicologo canadese Jordan B. Peterson: quest’ultimo parla, in particolare, di “neomarxismo postmoderno”. Ma di che cosa si tratta esattamente? Con questi sintagmi, in genere, si indicano tutte quelle tendenze egalitarie proprie dei movimenti di giustizia sociale oggi estremamente prevalenti fra i giovani, come Black Lives Matter, la teoria critica della razza, il femminismo della terza ondata, la comunità LGBT, il cosiddetto “politicamente corretto”, etc. Peterson argomenta che, essendo ormai il marxismo ortodosso senz’ombra di dubbio morto – in quanto dottrina economica rivelatasi tragicamente fallimentare –, ci sia in epoca contemporanea una volontà, da parte dell’establishment universitario (e da parte delle istituzioni in generale), di rivitalizzare l’ideologia marxista in chiave prettamente sociale, sostituendo l’aspetto economico della lotta di classe con uno scontro postmodernista fra forze binario oppositive relative all’etnia, al sesso, all’orientamento sessuale e all’identità di genere (cfr. la politica identitaria, o in inglese identity politics). Sintomo marcatamente marxista e insieme postmodernista di questa nuova dottrina, sempre secondo Peterson, è lo slancio totalitario, sovversivo, relativista e oscurantista che molti dei suoi promulgatori, in aperta ostilità nei confronti della tradizione valoriale giudaico-cristiana – propria della civiltà europea –, adottano fieramente in occasione delle più disparate discussioni politiche. In questo articolo si cercherà di mettere in luce le contraddizioni filosofiche implicate nel paradigma concettuale del “marxismo culturale”, o “neomarxismo postmoderno”, dimostrandone l’impossibilità logica e confutandone gli assunti teorici principali attraverso l’analisi comparativa dei pensatori additati da Gottfried e Peterson come responsabili di tale fenomeno (dai membri della Scuola di Francoforte fino al decostruzionismo di Jacques Derrida). In conclusione, più in generale, si proporrà una nuova – e, con tutta probabilità, controversa – chiave di lettura libertaria circa il rapporto fra capitalismo e postmodernismo, finora dogmaticamente problematizzato dai più (sia a destra che a sinistra) come antitetico a priori.

Marxismo e neomarxismo: la Scuola di Francoforte

Il marxismo è comunemente inteso come la dottrina filosofica fondante del comunismo: nato nel XIX secolo a partire da Karl Marx e Friedrich Engels, attraverso la particolare declinazione storico-materialistica del metodo dialettico hegeliano, si propone di descrivere il capitalismo come un sistema economico votato unicamente allo sfruttamento, e il rapporto fra la classe proletaria e quella borghese come antagonistico per natura. Da qui il cosiddetto “materialismo storico”, ovvero quella concezione filosofica che vede nei rapporti di produzione economica la base determinante di gran parte dei comportamenti in società (cfr. il concetto di struttura e di sovrastruttura), e che considera la storia nella sua totalità come una conseguente e continua dialettica del conflitto fra classe dirigente (i borghesi, detentori dei mezzi di produzione) e classe subalterna (i proletari, forza produttiva sfruttata dai borghesi). Il sistema capitalistico, secondo Marx, ostacola l’emancipazione economica dei proletari sottoponendoli ad un periodo di lavoro ulteriore per cui non vengono remunerati (cfr. il motivo del profitto, chiamato “plusvalore” nella letteratura marxiana). Il comunismo, così, incita alla ribellione internazionale degli operai, in vista di una dittatura del proletariato che funga da antitesi alla dittatura della borghesia, e che – sempre in un’ottica dialettica – porti inevitabilmente ad una successiva sintesi socio-economica, in cui non esistono più il capitalismo, le classi sociali, i soldi e lo Stato. Con il termine “neomarxismo”, invece, si designa tradizionalmente un insieme di movimenti e di approcci intellettuali che risalgono agli anni ’20 (con la nascita dell’Institut für Sozialforschung a Francoforte) e che si estendono fino agli anni ’70 del Novecento. Ricorrendo ad altre discipline, in primis alla psicanalisi (Freud) e alla sociologia (Weber), il neomarxismo si configura come una critica revisionista di alcuni aspetti fondamentali della dottrina marxista-leninista, come quello della lotta di classe e del materialismo storico.
Secondo Marcuse, Adorno e Horkheimer (tre dei più importanti membri della Scuola di Francoforte), l’analisi operata da Marx tralascia di notare l’importante ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, delle istituzioni scolastiche, della famiglia, etc, nel preservare il dominio capitalistico. È così che dunque nasce la cosiddetta “teoria critica della società”: rifiutando il criterio weberiano di “avalutività” sociologica, gli intellettuali francofortesi si posizionano in maniera – per l’appunto – critica, e non neutrale, nei confronti delle strutture che regolano l’esistenza degli uomini nella società neoliberista, indagandone in particolare i meccanismi intrinsecamente capitalistici di razionalizzazione, matematizzazione e reificazione che avrebbero portato alla forma di massificazione, omologazione e quindi alienazione individuale più estrema e tragica di tutto il Novecento, ovvero l’Olocausto nazista. Sebbene non sia stato direttamente affiliato alla Scuola di Francoforte, l’intellettuale marxista Pier Paolo Pasolini giunge a conclusioni simili per quanto riguarda la situazione socio-politica italiana del suo tempo. In occasione di numerosi interventi giornalistici (cfr. gli “Scritti corsari”), Pasolini sostiene che la Democrazia Cristiana, in un primo momento, ha continuato l’operato del fascismo mussoliniano, mascherando la propria corruzione monopolistica con l’aiuto del Vaticano: per poter salire al potere e sopprimere la competizione fra partiti che l’ambiente parlamentare inevitabilmente avrebbe comportato, la DC ha infatti stipulato un accordo con le istituzioni ecclesiastiche dell’epoca (capaci di arrivare alle masse), promettendo in cambio determinati privilegi (è ciò che Pasolini chiama “clerical-fascismo”). Per massimizzare il proprio elettorato e per contrastare i comunisti, la DC ha così attinto ai valori fiscali della borghesia nelle città e ai valori religiosi dei contadini nelle zone più umili e periferiche del paese: di questi valori ha però falsificato il senso più radicato attraverso una loro impropria e artificiosa traslazione culturale su scala nazionale: osservati a livello regionale – argomenta Pasolini –, essi sono infatti perfettamente autentici; ma se imposti con forza all’intera penisola, diventano finti, ridicoli, mostruosi. È in seno ad una simile aria di conformismo che, secondo l’intellettuale corsaro, si è affermato un nuovo tipo di totalitarismo, il quale – nonostante ne rappresenti una diretta conseguenza – ha lentamente cominciato a disintegrare sia il potere del Vaticano (cfr. il caso dei cosiddetti “jeans Jesus”) sia il potere della Democrazia Cristiana stessa (cfr. la sconfitta che ha subito in merito al referendum sul divorzio): e cioè il neoliberismo. Le innovazioni tecnologiche da esso derivate, compresi tutti gli strumenti usati dal potere statale per omologare la popolazione attorno ad un unico modello culturale di marca borghese (in primis la televisione), hanno eroso il carattere religioso della nazione e il bisogno da parte dei cittadini di affidarsi ad un’autorità come il Vaticano, vanificando così la sua sfera di influenza politica. Non avendo più una solida base spirituale, la Democrazia Cristiana – secondo Pasolini, inconsapevole di tali sviluppi – ha finito per vacillare e per essere in definitiva fagocitata dalla sua stessa creazione. La televisione ha portato al “genocidio” culturale delle periferie (cfr. il “Manifesto del Partito Comunista” di Marx), annullando i costumi e le tradizioni più tipiche dei contadini e imborghesendoli di conseguenza. I mass media però non hanno condotto ad una pacifica assimilazione ad un modello interclassista (come invece il comunismo aveva fatto – sempre secondo Pasolini – nell’Unione Sovietica): la televisione sarebbe infatti per sua stessa natura uno strumento di subordinazione che costringe il proprio pubblico a sentirsi in difetto, a sviluppare una serie di ansie e di nevrosi: guardando ad essa come modello culturale di riferimento, i sottoproletari percepiscono tutta la loro presunta inferiorità, mentre i borghesi – essendo per loro naturale riprodurre tale modello – smettono di svilupparsi da un punto di vista intellettuale e si “sottoproletarizzano”.

Anatomia di un complotto: conservatori e nazisti

Capiamo a questo punto che il neomarxismo indica, in filosofia, un fenomeno preciso: non si tratta di una semplice sostituzione della lotta di classe con una lotta di sessi, o una lotta di etnie, etc (come invece sostengono Peterson e altri), bensì di un’estensione – in chiave psicanalitica e sociologica – dell’interrogativo marxista; un’estensione volta a studiare non solo l’assetto economico ma anche la funzione istituzionale dei mezzi di comunicazione di massa in relazione al potere totalitario del capitalismo, mantenendo quindi quest’ultimo come punto focale della propria denuncia. I vari movimenti progressisti di oggigiorno (tranne il vero fulcro burocratico di Black Lives Matter, che è diverso dai suoi sostenitori), sebbene siano in gran parte di sinistra, non possono essere considerati neomarxisti in senso stretto, in quanto del tutto privi di quell’impianto teorico che vede nel capitalismo l’errore primo da correggere. Riconoscere le ingiustizie, denunciare determinate forme di oppressione, o anche concepire la storia come un susseguirsi continuo di lotte fra gruppi di persone diverse, non bastano a definire il (neo)marxismo: certo, l’ideologia comunista era anche tutte queste cose, ma non ha inventato il concetto di uguaglianza o di giustizia: infatti le stesse battaglie sono state combattute, prima del marxismo, dal liberalismo e dai pensatori dell’Illuminismo. Come abbiamo già detto in precedenza, ciò che rende il marxismo tale è la sua critica radicale al sistema capitalistico, inquadrata all’interno di una forma storicizzata del materialismo dialettico di Hegel: una volta rimosse queste caratteristiche definitorie, i semplici valori di uguaglianza fra individui e di giustizia sociale che ne rimangono tradiscono la loro camaleontica compatibilità con altre ideologie (anche con ideologie diametralmente opposte al marxismo). Oltretutto, come a buon diritto fa notare Jordan Peterson, molti di questi orientamenti progressisti, specialmente quelli più legati ad un ambito accademico, sono di marca postmodernista, essendo caratterizzati da una radicale volontà di rifiutare e quindi di superare le opposizioni binario-oppositive tipiche delle metanarrazioni storiografiche, fra cui spiccano il cristianesimo, il razionalismo illuminista, ma anche il marxismo (non per nulla tre dei filosofi che più influenzarono la corrente di pensiero postmodernista, ovvero Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e Max Stirner, erano ferventi anticomunisti). E allora perché ci si ostina a considerare i movimenti di giustizia sociale come forme di neomarxismo postmoderno? Se il marxismo è incompatibile col postmodernismo, perché Gottfried e Peterson continuano a parlarne in questi termini? Abbiamo ragione di credere che si tratti di una moderna strategia (paleo)conservatrice volta a denunciare – all’interno di un unico sintagma logicamente contraddittorio, e quindi in un colpo solo (per così dire) – due tendenze politiche fra loro distinte (il marxismo da una parte e il progressismo dall’altra: e cioè, storicamente parlando, i principali avversari dell’ideologia conservatrice). Non si tratta però di un fenomeno del tutto nuovo: durante gli anni del Terzo Reich, i critici d’arte più vicini al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori usavano il termine “bolscevismo culturale” per indicare dispregiativamente vari movimenti di stampo avanguardista, come il dadaismo, il surrealismo e il modernismo: all’epoca si argomentava che, siccome il modernismo era sorto intorno al periodo della rivoluzione russa, le opere d’arte ad esso collegate celassero un’insidioso carattere ideologico marxista-leninista, e che quindi – per associazione – rappresentassero un pericolo di degenerazione giudaica per la popolazione ariana tedesca (sia Marx che Lenin erano infatti di origini ebraiche). Nel ’92 il saggista americano Michael Minnicino scrive un articolo in cui appare per la prima volta il termine “marxismo culturale”: l’autore lo fa risalire all’influenza filosofica della Scuola di Francoforte e considera il fenomeno come responsabile per il “politicamente corretto” e per l’abbandono degli ideali cristiani e rinascimentali nell’arte moderna (cfr. New Dark Age: The Frankfurt School and ‘Political Correctness’). Anche William Lind, un altro autore americano, sempre negli anni ’90, pubblica un articolo in cui delinea vari parallelismi fra il “politicamente corretto” e il neomarxismo della Scuola di Francoforte (cfr. The Origins of Political Correctness), decidendo però questa volta di sottolineare in maniera allusiva l’origine ebraica di molti dei suoi membri (e, curiosamente, senza far notare il passato nazista di Jürgen Habermas, l’unico dei francofortesi ancora vivo). Oggigiorno comunità di giovani neonazisti e neofascisti continuano ad accusare la Scuola di Francoforte per le tendenze neomarxiste e postmoderniste del mondo contemporaneo, tralasciando però di denunciare (o, in alcuni casi, addirittura lodando) l’operato anticapitalista di Pier Paolo Pasolini (per molti aspetti identico a quello dei francofortesi).

Capitalismo e decostruzionismo: anarchia

Abbiamo finora dimostrato che la concatenazione sillogistica enucleata da Peterson e Gottfried nel paragrafo introduttivo, apparentemente solida nelle sue fondamenta, si profila come approssimativa e lacunosa da un punto di vista teorico (cfr. le interpretazioni fuorvianti che forniscono a proposito del pensiero della Scuola di Francoforte) e contraddittoria da un punto di vista logico (cfr. la loro insistenza sul binomio impossibile marxismo-postmodernismo). Approfondiamo adesso il carattere antimarxista del postmodernismo, su cui si cercherà qui di seguito di delineare brevemente una nuova lettura libertaria. Come abbiamo già accennato, la corrente postmodernista rifiuta le metanarrazioni, ovvero tutti quei ragionamenti che tentano di interpretare la storia in maniera onnicomprensiva. Uno degli esponenti più celebri di tale atteggiamento ideologico è Jacques Derrida, padre del decostruzionismo, movimento filosofico secondo cui nella vita non esistono assoluti nel senso onto-metafisico del termine: ovvero, l’identità di ogni ente nel mondo viene a determinarsi solo a partire dai rapporti di differenza che quell’ente instaura con altri enti. Di conseguenza l’identità di nessun ente è autosufficiente, o assoluta. Ora, sebbene Derrida fosse un uomo di sinistra, caratterizzato anche da un certo spirito anticapitalista (ma non marxista), vogliamo far notare la vicinanza concettuale fra il processo di decostruzione da lui elaborato e le dinamiche che intercorrono all’interno dell’economia di libero mercato: l’identità valoriale della merce non è fissa, non è assoluta (come invece vorrebbe la teoria marxiana del valore e del lavoro socialmente necessario), ma cambia a seconda della competizione e delle modalità in cui i consumatori interagiscono con essa (cfr. anche la fenomenologia di Husserl), determinandone così il prezzo. Ciò si contrappone a qualsiasi forma di economia pianificata, tipica dei paesi socialisti, in cui il valore dei prodotti viene deciso unilateralmente dallo Stato. A tutto questo, però, si aggiunge un problema: se l’identità di ogni ente è determinata a partire dalle relazioni negative che quell’ente instaura con altri enti (es. x è tale in quanto non-y, etc), allora anche l’identità degli individui deve funzionare così. E di conseguenza non può esistere un individuo assolutamente indipendente dal resto della società (come si auspicano molti libertari). Abbiamo ragione di credere che il problema sia solo apparente: sì, l’identità dell’individuo viene determinata a partire dalle relazioni che quell’individuo instaura con altri individui, ma esso rimane comunque, all’interno dei meccanismi sociali che regolano la nostra esistenza, l’unità fisica minima capace di avanzare il processo relazionale descritto da Derrida, e quindi l’agente metafisico trainante per eccellenza che contiene dentro di sé la traccia infinita di rimandi identitari e che, a partire da questi ultimi, concepisce la propria (provvisoria) volontà. Se quindi la volontà dell’individuo è il risultato di questo processo di infinite relazioni sociali, e se questo processo di infinite relazioni sociali regola davvero l’esistenza dell’uomo, allora la volontà dell’individuo è inviolabile, e andrebbe considerata come antitetica rispetto all’ontologia fondamentale dell’uomo ogni sua violazione, come per esempio la tassazione e l’esistenza stessa dello Stato.

Nicolas S. Straehl

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