School Strike 4 Climate

Il 15 marzo è andata in scena la mobilitazione in tutto il mondo di giovani studenti che hanno chiesto a i governi di agire sul fronte del “Climate Change”. “Non c’è più tempo” affermano i manifestanti, “ci state rubando il futuro” è lo slogan più toccante, che rinforza l’ennesimo conflitto generazionale tra le élite che ci governano e coloro che il pianeta dovranno abitarlo per i prossimi anni. La grande mobilitazione nasce dall’iniziativa di una ragazza svedese di 16 anni, Greta Thunberg, che ha iniziato una battaglia di sensibilizzazione sui temi ambientali in grado di penetrare le coscienze di giovani e meno giovani di tutto il mondo.

Il volto della giovane Greta, mossa da sentimenti onorevoli e nobili, è stato però strumentalizzato da chi da sempre ha usato la – sacrosanta – battaglia contro l’inquinamento per motivi ideologici. Forse sarebbe il caso di analizzare in maniera più complessa e profonda il problema: la difesa e la sopravvivenza del nostro pianeta sono temi molto complessi, non esplicabili tramite slogan e manifestazioni.

La terra ha oltre 4 miliardi di anni, e pensare di avere una conoscenza completa delle sue dinamiche, è una delle tante dimostrazioni di egocentrismo e “superomismo” della razza umana, che ormai, tronfia delle sue conquiste in campo scientifico, pensa di poter spiegare tutto lo scibile umano grazie alla propria mente ed ai propri strumenti tecnici.Ma non è mia intenzione discutere riguardo la natura antropogenica del cambiamento climatico, lascio il discorso a chi è più qualificato di me, augurandomi che essi siano mossi dagli stessi nobili sentimenti di Greta, più che da ideologie e convinzioni personali. Voglio focalizzarmi su due temi principali: il presunto egoismo dell’Occidente e le colpe del sistema produttivo capitalista.

Il presunto egoismo dell’Occidente e le colpe del Capitalismo

“La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso.”_ Greta Thunberg

Ancora una volta sono i ricchi, i potenti e l’egoismo occidentale a distruggere il pianeta? Davvero stiamo sacrificando la biosfera per garantire a pochi di vivere nel lusso? La retorica pauperista e terzomondista ha sempre una grande presa sulle coscienze del mondo Occidentale.Ma no, cara Greta (o meglio, le organizzazioni che ci stanno dietro) non è così! Tra i principali paesi produttori di CO2 vi sono numerosi paesi in via di sviluppo: Cina, India, Iran, Messico e Brasile tra gli altri. E ancora, basti vedere qualsiasi mappa dell’inquinamento mondiale per rendersi conto che sono proprio i paesi in via di sviluppo e del Terzo Mondo ad inquinare di più. E sono proprio questi Paesi i maggiori nemici dei progressi sul riscaldamento globale. Essi infatti non sono intenzionati a ridurre le proprie emissioni, o ad ammodernare i loro impianti, in quanti ne hanno la necessità per crescere economicamente e continuare a ridurre il numero dei loro poveri.

La sola Cina, negli ultimi 30 anni, ha vissuto un progresso economico vertiginoso, che, vero, l’ha portata ad essere uno dei paesi più inquinanti ed inquinati del mondo, ma ha anche fatto sì che svariate decine di milioni di persone uscissero dalla soglia della povertà assoluta, migliorandone le condizioni di vita. I Paesi che più hanno fatto progressi nella riduzione delle emissioni sono, invece, proprio i Paesi Occidentali ed Europei in particolare.

L’egoismo mal celato dei “Verdi” di professione

Dietro le buone intenzioni nel limitare il cambiamento climatico globale, si cela invece un velato egoismo: chiedere ai Paesi più poveri di ridurre la produzione e le emissioni e quindi di rimanere poveri, o ritardare la loro crescita, affidandosi a fonti di energia che ancora non sono in grado di sostenere elevati standard produttivi.Non è la prima volta che gli occidentali, mossi da buone intenzioni e dal sentimento ecologista, provocano l’effetto opposto sulle popolazioni più arretrate e povere. Come nel caso del DDT, un insetticida capace di debellare la malaria e ridurre in maniera drastica il numero di morti causati dalla zanzara anofele.

Questo fino a che, nel 1962, è iniziata una demonizzazione della sostanza, ritenuta nociva e dannosa per la salute e addirittura cancerogena. Per questo motivo i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, hanno deciso di metterla al bando. Da quel momento le morti per la malaria sono aumentate – ma ovviamente non in Nord America o Europa – bensì in Africa ed in Asia, nei paesi più poveri dove la malattia ha iniziato a mietere fino a 2 milioni di vittime l’anno. Nel 2006 l’OMS ha dichiarato che il DDT non comporta danni per la salute umana e che dovrebbe essere ripristinato il suo uso nella lotta contro la malaria.

Ma nel frattempo, oltre 40 anni di lotta ambientalista su questo tema hanno causato, qui sì, svariati milioni di morti, per un dubbio, un timore, un sospetto non verificato, che esso potesse causare danni per la salute dell’uomo.Un’altra campagna degna di menzione è quella contro gli OGM, giudicati dannosi e pericolosi da numerosi Paesi occidentali – tra cui l’Italia – che ne vietano o limitano la produzione. Nel frattempo, milioni di persone muoiono o soffrono di malattie legate alla malnutrizione, che i cibi OGM potrebbe evitare o comunque limitare.

Ancora una volta, l’egoismo ambientalista che prospera nei Paesi occidentali, mascherato dalle buone intenzioni e dai timori per la salute umana, miete vittime nei paesi più poveri e meno sviluppati del mondo.

I falsi miti degli ambientalisti

Quasi tutta la campagna di sensibilizzazione sul tema cambiamento climatico pone come obiettivo e “nemico” l’industria, rea di immettere il maggior numero di sostanze inquinanti per soddisfare le smanie di ricchezza dei capitalisti. Ma anche questo è un falso mito.

Numerosi studi dimostrano come gli impianti termici per i riscaldamenti degli edifici producono una quantità di CO2 maggiore di circa 3 volte rispetto gli impianti industriali e 6 volte rispetto la circolazione dei veicoli. Il primo passo, di chi ha a cuore il futuro del nostro Pianeta, dovrebbe essere quello di spingere per l’ammodernamento degli impianti di riscaldamento nelle nostre case – attraverso incentivi, o meglio, detassazioni totali – più che chiedere ai governi di agire con disincentivi fiscali nei confronti di chi produce o usa auto nei centri urbani.

I combustibili fossili restano comunque, allo stato attuale – piaccia o non piaccia – una fonte di energia non rinunciabile. Per quanto sia positivo tentare di sviluppare forme alternative quali l’eolico ed il fotovoltaico, pensare che esse possano, nel breve periodo, soppiantare i combustibili fossili è improbabile, oltre ad avere un costo spropositato. Dal 2007 in poi l’Italia ha iniziato ad investire nelle energie alternative. In circa 10 anni il costo della bolletta è più che raddoppiato. A questi investimenti di denaro pubblico non sono conseguiti risultati degni di nota: le energie alternative non si sono rivelate utili per soppiantare gli impianti tradizionali.

Il fotovoltaico e l’eolico ad oggi sono una fonte utile a risparmiare combustibile convenzionale, ma non ancora in grado di sostituirlo.L’unica fonte che in maniera chiara è in grado di produrre energia sufficiente emettendo meno CO2 degli impianti convenzionali è il Nucleare. Demonizzato ed avversato da tutti i movimenti ambientalisti globali. In Italia neanche a parlarne!

Conclusioni

L’argomento inquinamento e cambiamento climatico è estremamente complesso, e nessuno può avere certezze a riguardo. È bene avere a cuore il futuro del nostro pianeta, ma bisogna farlo superando gli steccati ideologici e i facili slogan approfondendo la questione.

La soluzione non è fermare il progresso e stravolgere il capitalismo. Sono proprio i paesi più ricchi e sviluppati che si stanno muovendo per trovare una soluzione. Sono le imprese più grandi e moderne quelle che producono meno emissioni e che promuovono campagne di sensibilizzazione sul tema. Progresso e sviluppo non sono nemici dell’ambiente, ma i suoi più preziosi alleati.

Government Spending Efficiency 2019

Il World Economic Forum ha presentato un rapporto sulla “Government spending efficiency”, cioè l’efficienza della spesa pubblica. In questa classifica, ai primi 5 posti #TOP5 figurano: 

Emirati Arabi Uniti 🇦🇪
Singapore 🇸🇬
Stati Uniti 🇺🇸
Qatar 🇧🇭
Rwanda 🇷🇼

Nei due emirati chi governa utilizza perlopiù fondi propri e, per tale motivo, è attento alle spese. Singapore è l’esempio di liberismo ed efficienza economica, mentre gli Stati Uniti – seppur con una spesa federale immensa – sono caratterizzati da un’efficientissima struttura federativa, che permette di limitare molto gli sprechi e di indirizzare la spesa ad obiettivi realmente necessari per le singole popolazioni locali. 

#TOP10 Tra i Primi 10 figurano:
Germania (6) 🇩🇪 
Arabia Saudita (7) 🇸🇦
Svizzera (9) 🇨🇭

#TOP20 Nella Top 20 troviamo:
Malesia (15) 🇲🇾
Cina (19) 🇨🇳
India (20) 🇮🇳

Per trovare l’Italia, dobbiamo andare oltre:
Gran Bretagna (27) 🇬🇧
Russia (57) 🇷🇺 
Francia (67) 🇫🇷 
Nigeria (120) 🇳🇬 
Haiti (123) 🇭🇹 

🇮🇹 Su 136 Paesi presi in considerazione, infatti, il nostro figura al 126° posto (tra Guatemala ed Ecuador), tenendosi dietro solo i Paesi sudamericani più disastrati: 
Colombia (129) 🇨🇴
Brasile (133) 🇧🇷
Venezuela (136) 🇻🇪 – che chiude la classifica – portato sull’orlo del collasso da 20 anni di politiche economiche di chiara ispirazione socialista.

Di fronte a tali dati, è evidente che la situazione possa migliorare solo diminuendo drasticamente la spesa pubblica, indirizzando spese e investimenti solo verso obiettivi che sono realmente necessari, e rivedendo – non da ultimo – la divisione delle responsabilità tra i vari enti territoriali italiani e lo Stato centrale, in favore dei primi. 

E’ ora di riprendere in mano gli scritti e le proposte del Prof. Gianfranco Miglio – che di queste problematiche ci avvertiva già più di 30 anni fa – e puntare a raggiungere un vero e sano federalismo, che responsabilizzi il più possibile gli amministratori locali e lasci allo stato centrale solo le competenze ad esso strettamente necessarie.

➡️ World Economic Forum Report

Lasciate correre i monopattini elettrici!

“Positivismo giuridico”: pensare che non possa esistere nulla, se non attraverso l’esistenza di una legge. È forse uno dei peggiori mali del nostro tempo e del nostro Paese, caratterizzato da una burocrazia asfittica e da un corpo di leggi dalle dimensioni impressionanti. 

L’ultimo esempio è legato ai nuovi monopattini elettrici, che stanno facendo il loro ingresso anche nel mercato italiano. Non inquinano, piacciono a chi si deve muovere in città e si stanno diffondendo sempre di più, senza l’intervento esterno di qualche ente particolare o politico illuminato che abbia detto di usarli. Ciononostante, secondo Legambiente ed altre organizzazioni, “ci vuole una legge” per consentirne l’uso (?!?).

Eppure, qui in Italia, così come nel resto del Mondo, i consumatori ne hanno intuito l’utilità e, di conseguenza, acquistati e utilizzati, senza necessità di alcuna legge. 

Ma si capisce che chi ha un’ossessione compulsiva legata all’esistenza di leggi, norme e regolamenti, possa ritrovarsi spaesato e colto dalle più terribili paure di fronte al libero utilizzo di tali mezzi, che potrebbero essere non omologati o omologabili (sciagura terribile), o addirittura “pericolosi”. Per chi, però, non si sa. Forse, più che per gli utenti, sono pericolosi per chi ora si trova con un concorrente in più nella mobilità urbana.

Temiamo che le compagnie che stanno diffondendo i monopattini elettrici in giro per il mondo e per l’Italia, come Lime, Bird e Helbiz, faranno la fine di Uber, bandita da ogni città italiana per privilegiare la categoria dei tassisti. E, perciò, come facemmo a suo tempo per Uber, ci schieriamo a fianco della libertà di movimento e di mercato, preparandoci a dare battaglia per evitare burocratizzazioni selvagge e divieti!

➡️ Link per approfondire.

50 Sfumature di Statalismo

“L’Italia è un paese deturpato da anni di politiche neoliberiste; abbiamo bisogno di tornare ad un ruolo centrale dello Stato!”. Avrete sicuramente sentito anche voi questa opinione espressa quasi quotidianamente nei talk show, nelle interviste e sui social da esponenti di tutto l’arco politico. Per l’attuale (ed anche passata) classe politica, la soluzione è sempre più interventismo nell’economia, quindi, più controllo pubblico negli affari dei privati. Dal crollo del prezzo del pecorino, alla disoccupazione, in particolare quella giovanile e femminile, la risposta è sempre una e una soltanto: Più Stato.

In Italia, lo Stato spende circa la metà della ricchezza nazionale. Questa spesa, in gran parte, è costituita da forme di trasferimento correnti destinate a mancette elettorali e non alla protezione sociale reale. Il prelievo fiscale è, ormai, pari a quasi la metà del Prodotto Interno Lordo. Si continua, però, a parlare di “neoliberismo” come se fosse la causa di tutti i nostri mali. Senza contare che lo Stato controlla, direttamente e indirettamente, le più grandi aziende nei settori strategici (trasporti, energia, comunicazioni, banche, etc.) e migliaia di enti partecipati.

Allo Stato italiano si aggiungono anche le numerose organizzazioni sovranazionali, l’Unione Europea in testa, che, abbandonato l’originario e preminente scopo di “limitare” il ‘Leviatano’ e di contribuire alla tutela dei cittadini, hanno progressivamente ampliato la propria competenza decisionale, avocando e armonizzando, sempre verso l’alto, compiti e funzioni come se fossero un vero e proprio ‘Stato’.

Difficile ritenere che il “neoliberismo” sia il problema del nostro Paese ed, in generale, del continente europeo. Ma, se quello continentale è un processo di centralizzazione ancora in fase embrionale, nel nostro Paese, è, invece, in stato avanzato. Parafrasando il film vincitore del premio Oscar del 2008 “Non è un paese per Vecchi”, non si può certo affermare che l’Italia sia un “Paese per Liberali”.

E se nel capolavoro dei fratelli Cohen, lo spietato killer Anton Chigurh perseguita il protagonista Llewelyn Moss per fare sua una borsa piena di soldi, lo Stato italiano vessa il cittadino per impossessarsi delle sue ricchezze, ritenendo di poterle spendere in modo più efficiente ed utile alla collettività, a sua volta, anche l’Unione Europea chiede allo Stato italiano sempre più denari e competenze, perché ritiene di sapere meglio degli stati nazionali come spenderle.

E se l’enorme ed ingombrante presenza dello Stato si percepisce su tutti i fronti, tuttavia nessuna forza politica ne chiede la riduzione. Sebbene il ruolo ed il peso dell’Unione Europea siano già stati messi in discussione da più parti, ciò non è accaduto specularmente per lo Stato. Infatti, ogni volta che viene approvata una legge che preveda degli aumenti di spesa, l’opposizione è sempre pronta alla levata degli scudi, ma mai anche solo a proporre una visione che sia in netta controtendenza. Troppo spesso le critiche riguardano il mezzo, le modalità o l’ambito in cui i soldi sono stati spesi. 

Alla fine delle, seppur forti, contrapposizioni, tutti vogliono spendere e tutti sanno meglio degli altri dove si dovrebbe spendere. Nessuno si pone, invece, il problema di voler continuare ulteriormente a sperperare le ricchezze che gli italiani hanno accumulato con grande fatica, sacrificio ed impegno – un trend che si protrae ormai da diversi decenni.

Come antidoto a chi vorrebbe risolvere un problema che non c’è (il neoliberismo) con un problema che invece esiste eccome (Stati e para-Stati) suggeriamo la lettura del nuovo libro di Alberto Mingardi: “La verità, vi prego sul neoliberismo – Il poco che c’è, il tanto che manca” (Marsilio)

Basta con la “Guerra alla Droga”

Il Governo ha annunciato un nuovo giro di vite nella “guerra alla droga” ma, ancora una volta, si fa confusione tra spaccio e consumo di sostanze stupefacenti, presentando un disegno di legge volto a modificare la normativa vigente in tema di “modica quantità”.

L’attuale legislazione riguardo alla produzione e al traffico di sostanze stupefacenti nel nostro Paese è già abbastanza aggressiva e punitiva, soprattutto per quanto concerne le droghe c.d. ‘leggere’. Se siete in possesso di più di 5 g di Hashish o Marijuana lo stato vi considera a tutti gli effetti spacciatori, ma potrebbe bastare una quantità minore per essere accusati di traffico di stupefacenti, qualora, ad esempio, essa fosse in piccole dosi, o foste in possesso di bilancini di precisione. Le pene previste per questo reato comportano da 2 a 6 anni di reclusione e una multa.

Grazie a questa normativa, la popolazione carceraria italiana è composta per circa il 35% da detenuti per reati connessi e/o collegati alla droga. La Grande maggioranza è composta, però, da piccoli consumatori abituali e non dai Signori del narcotraffico che siamo abituati a vedere nelle serie TV dedicate.

Il co. 5 dell’art. 73 del ‘Testo Unico sugli Stupefacenti’, prevede pene minori per i casi di “lieve entità”, caratterizzati dal possesso di una modica quantità di sostanza, infliggendo la reclusione da 6 mesi a 4 anni e una multa. Il DDL propone, invece, l’abolizione della categorizzazione della “lieve entità” e l’aumento delle pene per questi casi – ricalcando una scelta che contraddistingueva la legge ‘Fini-Giovanardi’.

Nel 2006 il concetto di “modica quantità” era infatti stato abolito dalla legge ‘Fini-Giovanardi’ e reintrodotto nel 2013 dopo la ‘Sentenza Torreggiani’, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri, causato, principalmente, da una legislazione estremamente stringente sul tema. 

Il concetto di “modica quantità” è legato al consumo personale e non ha nulla a che vedere con i “venditori della morte”, bensì punirà i consumatori, producendo una ennesima ondata di arresti che non porterà ad alcun risultato che non sia il sovraffollamento delle carceri, distogliendo l’attenzione dal vero problema: la lotta ai padrini del narcotraffico che, con la droga, ha fatto le proprie fortune nonostante leggi severe in materia di stupefacenti.

Ancora una volta l’Italia ha imboccato la strada sbagliata, scegliendo di perseverare nella “guerra alla droga” che non ha condotto ad alcun beneficio, invece di provare a seguire la via della depenalizzazione e della liberalizzazione delle sostanze stupefacenti, accompagnata da campagne di informazione, prevenzione e da programmi di assistenza nei confronti di chi soffre di dipendenza. 

Genova, dal Monopolio ai Voucher

Una buona notizia arriva da Genova. Il comune ha approvato un nuovo modello di gestione per il trasporto dei disabili: si passa dal monopolio ai Voucher. Attraverso questi buoni saranno le singole famiglie, e non più il Comune, a scegliere a quale fornitore affidarsi. Questo sistema permetterà a diverse compagnie di farsi concorrenza, consentendo così loro di innovarsi, rendersi più efficienti e più economiche, per soddisfare al meglio i propri consumatori e guadagnarsi sempre più una maggiore quota di mercato. Il tutto a vantaggio degli stessi disabili, che potranno affidarsi ai servizi delle migliori aziende o cooperative rimaste nel mercato, e non più a operatori il cui unico merito è aver superato un bando di concorso burocratico.

Il sistema dei Voucher non è affatto una nuova invenzione! Esso viene proposto per la prima volta dall’economista Milton Friedman, più di 45 anni fa. La sua idea è molto semplice: la cifra che un Ente spende per un determinato servizio può essere affidata direttamente a individui e famiglie, grazie ai buoni. Perciò la spesa pro-capite resta stabile o, addirittura, diminuisce e i servizi migliorano decisamente, rispetto a quelli monopolistici e/o pubblici.

Della stessa idea è Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, che ha sottolineato come: “Le intenzioni che ispirano molte politiche sociali sono ottime, ma i risultati spesso deludenti. Puntare sulla libertà di scelta delle famiglie significa riconoscere che di solito il pluralismo dell’offerta aiuta a migliorare la qualità dei servizi e, soprattutto, che le persone comprendono i loro bisogni meglio dei decisori politici”.

Siamo felici di vedere che, anche in un Paese come il nostro, troppo spesso legato a idee economiche deleterie, ci siano esempi virtuosi come questo e speriamo che si possano diffondere al più presto ad altri Comuni e per tanti altri servizi. Abbiamo bisogno di più persone che, come l’assessore del comune di Genova che ha avanzato questa proposta, abbiano il coraggio di combattere privilegi concessi per bandi e leggi, senza curarsi dei ricatti elettorali di chi questi privilegi non vuole perderli.

➡️  Link all’articolo

Viva la Mamma! L’Epic Fail di AOC

Avrete sentito tutti parlare di AOC, ovvero Alexandria Ocasio-Cortez. E’ la nuova “speranza” (presunta) del Democratic Party americano e l’ennesima “sciagura” (certa) per l’economia statunitense: appoggia le idee socialiste del suo idolo Bernie Sanders, è a favore di un sistema sanitario universale e gratuito (vada a dirlo ai taxpayers che è gratuito), di un sistema universitario gratuito (rimandiamo sempre al confronto con i contribuenti), dell’aumento del salario minimo (da quando NY ha fissato per legge il salario minimo a 15$/ora, il settore ristorativo della città è entrato in recessione!), ha proposto un’imposta del 70% sui redditi milionari, ma soprattutto ha elaborato il “Green New Deal”. Quest’ultimo è un’accozzaglia di regole e aumenti di tasse e spesa pubblica per rendere l’economia americana più green. Inutile dire che, se implementate, queste proposte avranno un effetto che in realtà sarà molto più simile al “brown”.

Perché parliamo di AOC? Perché, con nostra profonda soddisfazione, ha scoperto l’effetto deleterio delle sue politiche economiche, grazie alle scelte di… sua madre. Quest’ultima ha, infatti, dichiarato alla stampa che, per via delle altissime tasse sulla proprietà vigenti nello stato di New York, ha deciso di trasferirsi in Florida, lo stato americano più liberista (secondo un rapporto del The Cato Institute), dove pagherà 600 $ l’anno invece di 10.000 $. 

Ovviamente mamma Cortez non è la sola a intraprendere scelte come questa: soprattutto negli ultimi mesi, si sta assistendo a un esodo di dimensioni importanti che da stati “terribili” come New York e California si sta muovendo verso stati dove si respira aria di libertà, non solo fiscale, come Texas, New Hampshire, Indiana, Nevada e Colorado, oltre alla già citata Florida. 

Insomma, il “Paese Reale” ha parlato, come diceva Milton Friedman “votando con i piedi”: ed il risultato di queste “elezioni” ci sembra più che mai palese.

➡️ Link ad uno dei tanti articoli americani che hanno diffuso la notizia.

➡️Articolo sulla recessione dei ristoranti a New York.

➡️ Classifica sulla libertà negli stati americani.

Legge di Bilancio 2019: Una Prospettiva Critica

La Legge di Bilancio 2019, contenente i principali provvedimenti di natura economica predisposti dal Governo, approvata dal Parlamento il 30 Dicembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il giorno seguente, si propone come una manovra di politica fiscale espansiva, con l’obiettivo di stimolare la domanda aggregata, in particolare tramite la componente dei consumi, e generando così un aumento del Pil.

Con queste premesse, ha sicuramente nei provvedimenti di “Quota 100” e “Reddito di Cittadinanza” i due capisaldi, che prevedono aumenti di spesa per circa 11 miliardi.

Altre novità importanti riguardano l’introduzione di una “Flat Tax” al 15% per i lavoratori autonomi con reddito fino a 65.000 €; l’introduzione di una “Web Tax” al 3% sui ricavi da servizi digitali e la disattivazione delle clausole di salvaguardia dell’Iva per il 2019, che evitano l’aumento della tassazione indiretta su beni e servizi.

Il quadro Macroeconomico

Per quanto riguarda il quadro Macroeconomico, il Governo ha previsto un rapporto Deficit/Pil pari al 2%, una crescita del Pil nel 2019 all’1% ed un Deficit strutturale in leggero aumento pari a 1,3%, sfruttando una flessibilità dello 0,2 concessa dalla Commissione Europea in fase di trattativa.

Le previsioni di crescita del governo apparivano molto ottimistiche già nel mese di dicembre, quando la legge è stata discussa e approvata. Altri organi, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio e la Banca d’Italia, prevedevano una crescita minore per il nostro Paese. In seguito alla pubblicazione da parte dell’Istat dei dati riguardanti la variazione del Pil negli ultimi due trimestri del 2018, pari rispettivamente a -0,1% e -0,2%: una previsione di crescita pari all’1% sembra ancora più irrealistica. Se la variazione del Pil dovesse essere più vicina allo 0% che all’1%, il deficit aumenterebbe di 0,4 o 0,5 punti percentuali rispetto a quello previsto e potrebbe divenire concreta la necessità di una manovra correttiva o comunque di consolidamento dei conti durante l’anno corrente.

Quota 100

Ci sembra utile soffermarsi sui due provvedimenti principali (Quota 100 e Reddito di Cittadinanza) in quanto rappresentano le poste di spesa maggiori e sono, sicuramente, le due misure più discusse. Nella Legge di Bilancio sono indicate le spese relative ai due provvedimenti, ma non le modalità di attuazione che sono state specificate nel DL 4/2019.

La revisione della “Legge Fornero” (prevista con Quota 100) è stata introdotta in via sperimentale per soli tre anni e dovrebbe interessare una platea pari a circa 900 mila persone, con un costo di 4 miliardi. Il provvedimento concede la possibilità di ottenere la pensione per chi ha raggiunto 38 anni di contributi e, minimo, 62 anni di età. Conseguenza diretta di tale misura è l’aumento della spesa pensionistica per gli anni futuri.

Se l’obiettivo della politica fiscale del Governo è quello di aumentare la crescita stimolando la domanda aggregata questa misura difficilmente avrà gli effetti sperati, in quanto essa rappresenta un trasferimento di risorse da una parte della popolazione (giovani lavoratori) ad un’altra (anziani pensionati). L’aumento della spesa pensionistica è catalogabile come un aumento di spesa corrente, la quale ha effetti espansionistici pari a zero o estremamente contenuti.

La spesa pensionistica in Italia è già una delle voci più importanti del bilancio statale, pari al 15% del Pil ed è una delle più alte tra i paesi OCSE. A pagare il costo di questa misura saranno le generazioni più giovani. A questa obiezione il Governo ha risposto sostenendo che la riduzione dell’età pensionistica produrrà una diminuzione del tasso di disoccupazione giovanile, in quanto per ogni nuovo pensionato verrà assunto almeno un giovane (2 o 3 nelle versioni più ottimistiche). Tale convinzione proviene dall’idea che il numero di posti di lavoro sia fisso, e che vi sia una sostituibilità naturale tra gli over 60 ed i lavoratori più giovani. Questa assunzione non sembra essere supportata dai fatti. Non vi sono studi o analisi che dimostrano l’esistenza di una relazione fissa tra disoccupazione giovanile e disoccupazione tra gli over 60. Inoltre, in presenza di un rallentamento dell’economia, come quello che sta sperimentando il nostro Paese attualmente, è improbabile che ad ogni pensionato corrisponda una nuova assunzione, ma è razionale assumere che le aziende possano sfruttare quota 100 per ridurre il personale e difendersi così dal peggioramento della congiuntura.

Reddito di Cittadinanza

Il Reddito di Cittadinanza è un provvedimento di sostegno al reddito, indirizzato verso le persone meno abbienti, ritenuti al di sotto della soglia di povertà, pari a 780€, di cui 280€ utilizzabili per le spese di affitto.

Esso è condizionato all’iscrizione, da parte del ricevente, ad un centro per l’impiego, e la ricerca attiva di un posto di lavoro. Si perde il diritto a ricevere il sussidio in caso di rifiuto di 3 offerte di lavoro congrue nell’arco di 18 mesi. Il costo totale della misura è pari a 7 miliardi, di cui un miliardo necessario per nuove assunzioni nei centri per l’impiego e dovrebbe essere rivolta a poco meno di 2 milioni di persone.

Essa sostituisce la forma precedente di sostegno al reddito, il Reddito di Inclusione, introdotto dal precedente governo, ampliando la platea avente diritto.

Anche questa misura non è esente da critiche, introducendo alcune distorsioni nel sistema dovute a due fattori principali.

Innanzitutto, la soglia di povertà assoluta è differente a livello geografico nel nostro Paese, essendo il costo della vita superiore al Nord rispetto che al Sud. Il provvedimento non sembra tenere conto di questa caratteristica. Il sussidio risulterà essere quindi molto più generoso in alcune zone e meno in altre.

Secondariamente, la scala di equivalenza usata per stabilire i criteri di chi ha diritto al reddito penalizza i nuclei familiari più ampi. Anche l’introduzione di una somma fissa per l’affitto (280€) contribuisce ad esacerbare questa differenza di trattamento.

In seguito a queste distorsioni, possiamo affermare che il massimo beneficio affluisce ai single residenti al Sud che potranno percepire un reddito nettamente superiore alla soglia di povertà definita dall’Istat per quei territori e, al contrario, una famiglia composta, per esempio, da due adulti e due bambini al Nord rimarrà sotto la soglia di povertà.

Altre criticità riguardanti il Reddito di Cittadinanza sono riscontrabili nelle tempistiche annunciate dal Governo per l’erogazione del sussidio, troppo poco tempo per assumere personale qualificato nei centri per l’impiego e per la definizione dei beneficiari. Infine, è sicuramente preferibile evitare commistioni tra politiche sociali di sostegno al reddito e politiche del lavoro e di contrasto alla disoccupazione, come già efficacemente fatto da numerosi paesi occidentali.

Anche questa misura è costruita per ottenere un aumento della domanda aggregata e dei consumi, tramite trasferimenti statali nei confronti dei meno abbienti. Per quanto sia lodevole il tentativo di aiutare le persone più in difficoltà, oltre ad introdurre le distorsioni precedentemente elencate, il Reddito di Cittadinanza difficilmente stimolerà l’economia verso una crescita sostenuta del Pil. Il moltiplicatore associato a questo tipo di spesa corrente, infatti, è estremamente contenuto.

Conclusioni

In conclusione, la manovra finanziaria potrebbe fallire nell’obiettivo di stimolo alla crescita, provocando degli scompensi nei conti pubblici. Sarebbe stata sicuramente preferibile una legge di segno opposto, volta a diminuire le spese dello Stato ed il debito pubblico, verso un consolidamento dei conti pubblici, puntando a riformare quei settori dell’economia in maggior difficoltà, come il mercato del lavoro.

La Rabbia dei Pastori Sardi

In questi giorni la notizia principale che affolla i notiziari ed i giornali riguarda la protesta dei pastori sardi. Fiumi di latte riversati sulle strade, sversati giù dai cavalcavia delle autostrade e minacce di bloccare i mezzi che trasportano il latte, sono le principali armi della contestazione del Movimento dei Pastori che cavalca la protesta. Sono atti estremi, perché nessuno vuol vedere il frutto del proprio lavoro gettato così: in quei gesti non si può non vedere una richiesta d’aiuto da parte di chi non ha riconosciuta la propria fatica. Ma a cosa è dovuta questa improvvisa rabbia?

Le cause della crisi

La motivazione principale riguarda il prezzo ritenuto troppo basso a cui viene acquistato il latte dai consorzi e dalle aziende che poi lo trasformano nel prodotto finito. Va da sé che il latte venduto a 60 centesimi di Euro vuol dire che migliaia di imprese pastorali saranno destinate alla chiusura.Oltre l’80% (circa 12mila) delle imprese pastorali sarde produce latte che viene poi trasformato in Pecorino Romano, il quale rappresenta una grossa fetta dei pecorini prodotti in Italia (81,54%) ed UE (52%). A causa di un’eccedenza nella produzione del Romano da parte dei consorzi, il prezzo dello stesso è crollato e, consequenzialmente, anche il prezzo della materia prima. I pastori piuttosto che vendere ad un prezzo così basso, inferiore al costo di produzione, preferiscono dunque buttarlo, darlo in pasto ai maiali o regalarlo alla popolazione in segno di protesta. Il problema risiede quindi nella monocultura di un’unica tipologia di formaggio: il Pecorino Romano, e alla grande volatilità del prezzo del latte sui mercati internazionali.Volendo soffermarsi su un’analisi superficiale questa sembrerebbe essere la solita storia di Davide contro Golia, il piccolo contro il grande, lo sfruttato contro lo sfruttatore. Forse è meglio andare più a fondo per capire, alla radice, dove stia il problema.

“Piccolo non è bello!”

Tale situazione è, infatti, solo la punta dell’iceberg di quel “peccato originale” che affligge la struttura economica della filiera agroalimentare italiana (e più in generale del settore manifatturiero ed industriale): ossia l’eccessiva frammentazione del tessuto produttivo e la filosofia del “piccolo è bello”.Rispetto agli altri paesi UE produttori di latte e formaggio, l’impresa Italiana è caratterizzata da pascoli di dimensioni minori (minor numero di capi per azienda) e resa, per animale, inferiore. Nonostante ciò, il prezzo è spesso maggiore rispetto a quello dei principali competitor. Tanto più se si aggiunge che la produzione del Pecorino Romano si trova in eccedenza. In una situazione del genere, si è obbligati ovviamente ad esportare. Nel mercato internazionale la domanda di latte ovino crescerebbe anche dell’8% annuo: altri ne traggono i vantaggi, ma non noi.

Soluzioni per risollevarsi

Quali sono allora le ricette per uscire da uno stato così disastroso ad aiutare le piccole-medie imprese sarde a risollevarsi? Sono quelle che non sono state mai applicate.Un consiglio che possiamo dare e che deve essere attuato da subito. Uno sviluppo del settore (e questo riguarda tutta l’Italia) non può fare a meno di razionalizzare la produzione. Ciò è possibile solo cercando di consorziare le aziende al massimo (magari anche in un consorzio unico), aumentando il numero di capi per azienda e potendo così sfruttare le economie di scala e produrre quantità maggiori ad un costo minore. Non è infatti più possibile che ogni comparto della filiera proceda in modo disgiunto l’uno dall’altro. Occorre anche differenziare (verticalmente ed orizzontalmente) in modo da non rimanere legati troppo ad un solo tipo di prodotto ed al suo andamento sul mercato. Il latte sardo negli anni è cresciuto in qualità, tanto da essere uno dei migliori al mondo: è principalmente da pascolo, ma questa caratteristica sicuramente positiva non rientra però negli standard industriali, che sono di natura più tecnica. Negli anni i pastori sardi sono diventati imprenditori, è stato chiesto loro di migliorare le greggi, con il risultato di avere macchine da latte e nel contempo, però, alti costi di gestione. L’introduzione di nuove razze iperproduttive, legate alla meccanizzazione, hanno generato una capacità produttiva elevata e dunque un’offerta di prodotto che supera quello che la domanda del mercato può assorbire. Per questo, bisognerebbe puntare più sulla qualità che sulla quantità, creando un prodotto di qualità, sfruttando la riconosciuta eccellenza dei formaggi Italiani nei mercati mondiali.L’altro aspetto, quello più urgente, è che va totalmente rivista la struttura commerciale, che non può essere lasciata ad una moltitudine di soggetti, imprenditori e cooperative che si fanno la lotta tra di loro abbassando i prezzi. Inoltre, si rende fondamentale, proprio perché c’è bisogno di esportare, la valorizzazione delle eccellenze (le d.o.p.) che ad oggi non vengono valorizzate. Anche la creazione di un marchio unico rappresentativo della Sardegna o del Pecorino Romano apporterebbe un enorme beneficio, dato che (e qui passiamo al settore secondario) molti trasformatori preferiscono i marchi aziendali, con una proliferazione di etichette che non aiuta la commercializzazione. Infine, cercare nuovi sbocchi. La domanda di latte è in aumento, ma il Pecorino Romano, che principalmente esposta negli States, sta subendo una contrazione costante: si rende quindi necessario trovare nuovi sbocchi, e ciò non è possibile se non con un consorzio forte che abbia una strategia a beneficio di tutti.

Le soluzioni non sono estranee al nostro tessuto imprenditoriale: le eccellenze italiane

Sono sicuramente soluzioni difficili ed impegnative, che richiedono un certo tempo per entrare a regime, ma sono le uniche che possono davvero funzionare e riportare le nostre aziende (sia dell’allevamento che e della trasformazione finale) allo splendore che meritano. E, si noti bene, non sono ricette estranee al nostro tessuto produttivo o alla nostra cultura imprenditoriale: si pensi, tra i tanti, alla Conserve Italia, proprietaria dei marchi Valfrutta e Cirio, o agli esempi virtuosi del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, dove gli allevatori vengono ripagati in modo positivo. Certo, questi grandi formaggi italiani ci hanno messo anni per arrivare ad una gestione dell’offerta competitiva ed efficiente a tutti i livelli della catena, ma lo sforzo è valso il sacrificio.

Una cultura politica inadeguata

Tuttavia il nostro Paese sconta (questo sì un “peccato originale” gravissimo) la “vecchia” (che poi mai vecchia è diventata) politica del chiedere l’aiuto dello Stato. E’ un malcostume che per molto tempo è stato diffusissimo nel nostro Paese (anche agli alti livelli delle nostre accademie) e che tanti e gravi danni ha prodotto alla nostra economia: il principale è stato quello di inibire la capacità di pensare a soluzioni che non siano quella dell’intervento pubblico: infatti, i rappresentanti degli stessi allevatori hanno subito richiesto la fissazione di un “prezzo minimo”, che sia superiore al costo di produzione. Tale richiesta non ha potuto non generare antipatie all’interno del mondo dei liberali italiani. Tuttavia non possiamo dimenticare che queste persone scese per le strade a manifestare il proprio scontento sono vittime del sistema a cui cerchiamo (nel nostro piccolo) di dare un’alternativa, e non parte di esso. Bisogna pertanto spiegare che chi vi promette prezzi minimi e soluzioni affini non è vostro amico! La fissazione di un prezzo minimo non farà altro che indurre le aziende a comprare il latte da un’altra parte, peggiorando ancora di più la già disastrosa situazione; e non si capisce come la paventata imposizione di un dazio al latte importato possa impedire alle aziende di rifornirsi dai produttori romeni (dato che la Romania sta in UE e non si possono fissare dazi interni) additati unanimemente dalla politica e dalle sigle sindacali degli allevatori come i principali responsabili della catastrofe. Tant’è vero che le accuse di concorrenza sleale, se fossero vere, sarebbero da denunciare subito (vi sono efficaci strumenti a livello nazionale e comunitari per farlo): cosa che nessuno ha mai fatto finora, nemmeno le corporazioni che pretendono oggi di difendere gli allevatori.Gli incentivi agli allevamenti sardi non sono altro che dei palliativi: occorrono invece strumenti nuovi e personale tecnico preparato ad affrontare i mercati internazionali. La soluzione non passa dalla politica e dall’aiuto di Stato, che è invece alla base di gran parte dei problemi del settore agroalimentare Italiano. L’assurda ed insensata politica di sussidi perpetrata prima dai governi nazionali e successivamente dall’Unione Europea con la PAC, sotto forma di quote, dazi all’importazione, prezzi minimi, questa politica, è proprio una delle principali cause delle difficoltà incontrate nei mercati dagli allevatori italiani. Le politiche assistenziali verso il settore agroalimentare hanno disincentivato la riduzione dei costi di produzione e di mantenimento dei pascoli, l’innovazione e la creazione di consorzi e cooperative di dimensioni maggiori in grado di produrre quantità tali da permettere ai singoli allevatori di sopravvivere in un mercato ormai globalizzato.

Conclusioni

Continuare a “proteggere” gli allevatori tramite sussidi non è la soluzione ma solo un modo per posticipare il problema, “kicking the can”, fingendo di familiarizzare con coloro che sono in difficoltà solo per accaparrarsi voti in vista delle prossime elezioni. Il problema si ripresenterà, e ad ogni ciclo sarà sempre peggio!I produttori dovrebbero chiedere meno regolamentazioni, la cancellazione di ogni tipo di quote e prezzi minimi e puntare ad un miglioramento della produttività tramite grandi consorzi e cooperazione sul territorio, come fanno efficacemente in Spagna e Francia (e anche in Italia non mancano gli esempi virtuosi in questo senso).Solo in questo modo è possibile porre un argine e resistere alla concorrenza di quello che sta venendo additato come il “vero nemico”, il latte proveniente dai paesi dell’Est, – sicuramente di qualità inferiore e meno sicuro per la salute, ma a minor costo per le aziende. Una produzione razionalizzata e di qualità (secondo le linee che abbiamo esposto sopra), un marchio forte e competitivo, aggiunto ad uno Stato (ma anche un’Unione) meno invasivo (soprattutto sul versante tasse) non avrebbe da temere alcuna minaccia.