Il fallimento dell’istruzione pubblica obbligatoria

L’educazione forzata dei giovani, basata sulle classi, da parte degli insegnanti per la preparazione di esami è una di quelle cose universali che nessuno mette mai in discussione. Diamo semplicemente per scontato che l’apprendimento avvenga così.

Ma una veloce riflessione sulla nostra esperienza mostra che ci sono tante diverse strade per imparare. Impariamo leggendo, guardando, emulando, facendo. Impariamo in gruppi di amici, impariamo da soli. E comunque quasi nulla di questo è chiamato “formazione”- che è inteso sempre come un’azione dall’alto in basso.

Ma la “classe” è veramente il miglior modo di imparare per i giovani? Oppure  l’ossessione dell’educazione formale ha soffocato altre forme, più emergenti, dell’imparare? Come sarebbe l’educazione se fosse libera di evolvere? Se ci pensiamo, è sicuramente strano che persone emancipate, libere nel pensiero, quando i loro figli raggiungono l’età di cinque anni, li mandano in una specie di prigione per i successivi dodici o sedici anni.

Lì sono tenuti, con l’ansia di una punizione, in celle chiamate classi e costretti, con l’ansia di ulteriori punizioni, a stare seduti su tavoli e seguire specifiche routine. Certamente non è più così Dickensiano come lo era una volta, e c’è chi emerge con una mente brillante, ma la scuola è comunque un luogo altamente obbligante, indottrinato ed autoritario.

E’ giunto, dunque, il momento di affrontare un argomento delicato: l’inutilità della scuola pubblica e dell’istruzione obbligatoria.

Lo facciamo perché è crollata anche l’ultima certezza dei più fervidi sostenitori di questa istituzione. Infatti, si dice che senza un sistema compulsivo di istruzione, l’analfabetismo sarebbe diffuso in tutta la popolazione.

A parte il fatto che una tale argomentazione non prende assolutamente in considerazione il ruolo della famiglia, così come quello delle esperienze personali di bambini e ragazzi, dando per scontato che una persona possa imparare qualcosa solo seduto su un banco di scuola, ma soprattutto, come ogni anno, escono i dati allarmanti dell’ISTAT: quest’anno più di 1/3 di chi frequenta medie e superiori non sa leggere o scrivere, e quasi la metà non sa fare di calcolo.

Un fallimento completo, sotto ogni punto di vista. La prova che scuola e formazione sono due elementi totalmente separati l’uno dall’altra.

L’unico obiettivo che si può dire efficacemente raggiunto dal sistema dell’istruzione pubblica è l’assunzione di più personale possibile, a prescindere dalla reale esigenza.

Ma come mai, se i risultati sono sempre stati così scarsi, la scuola pubblica è ritenuta tanto importante nelle nostre vite? Probabilmente per via del proprio scopo originario, che non è mai stato abbandonato…

Come nasce, infatti, il modello di scuola pubblica e obbligatoria? Bisogna andare indietro di circa 200 anni, in Prussia, dove l’imperatore decise, su consiglio dei propri intellettuali, di creare un programma di formazione obbligatoria e rigorosa, il cui obiettivo principale era addestrare le giovani generazioni ad essere cittadini obbedienti. 

Un’invenzione molto liberale, come si può vedere… Cosa ci spinga oggi a volerla come cardine fondamentale delle nostre vite è però un mistero!

Specialmente se andiamo ad esaminare quali sono le “invenzioni” prussiane: l’insegnamento basato sull’età e non sull’abilità, l’apprendimento sui banchi, la giornata scolastica determinata dal suono della campanella, il programma predeterminato, l’attenzione a più materie in una giornata. Tutto ciò che, ancora oggi, caratterizza il sistema di istruzione a cui ci affidiamo, il cui obiettivo non è mai stato quello di aumentare gli standard, ma di trasformare “spiriti liberi” in cittadini disciplinati.

E’ abbastanza evidente anche dalla storia dell’istruzione obbligatoria in Italia: nel 1859 la Legge Casati si ispirò al modello prussiano sia nell’impianto generale che nel sistema organizzativo, fortemente gerarchizzato e centralizzato, poi nel 1923 la Riforma Gentile elaborò quella che lo stesso Mussolini definì “la più fascista” delle riforme, e dal 1948 in poi – con l’istruzione pubblica obbligatoria, inserita in Costituzione – sono stati man mano aumentati gli anni obbligatori, mantenendo la struttura creata in precedenza.

Occorre prendere atto di tutto ciò e abbandonare al più presto un sistema che non forma adeguatamente – neanche nelle attività più basilari, come scrivere e far di conto (e c’è chi pretende che la scuola ci prepari a vivere e lavorare) – i cui unici scopi sono dare un lavoro – perlopiù inutile nei confronti della società – a più persone possibili e indottrinare tutti ad accettare questo e ben altro.

Si deve partire dalla diminuzione del ruolo dello Stato nel fornire l’istruzione, lasciando più spazio ad attori privati, associazioni volontarie, confessioni religiose e alle stesse famiglie (con l’homeschooling).

Una volta fatto ciò va completamente riformato il settore, arrivando ad eliminare del tutto obblighi di età e valore legale dei titoli di studio: va lasciata più libertà possibile a formati e formatori, per seguire al meglio i bisogni e le necessità di ognuno. E se qualcuno non vuole proprio saperne di studiare, va accettato e gli va permesso di far altro, anche lavorare, senza spaventarci di fronte al fatto che sia giovane: solo perché una persona non ha ancora raggiunto la maggiore età per legge, non significa che sia meno matura di chi la ha già raggiunta.

E le cifre sull’abbandono scolastico non possono incoraggiare in alcun modo chi ancora sostiene che l’istruzione pubblica obligatoria sia la sola ed unica via per dare un’occasione a chi non avrebbe i mezzi e i denari per permettersi un’istruzione privata:

Se l’istruzione è finanziata dalla fiscalità generale (cioè con le tasse di tutti) è giocoforza che essendo i poveri molti più dei ricchi, nonostante la “progressività fiscale” (che comunque, rigurda solo una tassa, quella sui redditi), saranno proprio loro a pagare anche per i secondi. Nonostante si pensi il contrario. Pertanto si giunge ad un paradosso: dato che chi completa il ciclo di istruzione ha maggiori possibilità di trovare un lavoro ben pagato, e, a ciò, se si tiene conto che chi termina i corsi universitari fa parte in genere delle classi sociali mediamente più elevate, si arriva alla conclusione che è l’intera collettività a pagare una gran parte dei costi dell’istruzione per un gruppo di studenti che provengono comunque dai ceti più elevati e che già se la potrebbero permettere; e non invece, come si vorrebbe, il contrario.

Il “figlio di papà” riceve dalla sua famiglia solo una parte dei costi della sua istruzione: il resto è a carico di tutti, anche del figlio del metalmeccanico che non è detto che andrà all’università.

C’è una cosa anche solo lontanamente più regressiva? Per noi le tasse sono il prezzo di un servizio; ma per un “collettivista” servono invece a redistribuire il reddito. Il finanziamento pubblico della scuola, però, com’è oggi concepito, non redistribuisce, dall’alto verso il basso, alcunchè, anzi, diventa estremamente vantaggioso proprio per chi dovrebbe, secondo il collettivista, essere “punito” per la sua ricchezza.

Chi abbandona la scuola, insomma, non si libera dei costi della sua istruzione ma, anzi, continua a pagare per chi ci sta dentro (e, chi rimane dentro, è sovente già più ricco di chi invece va fuori prima). Dov’è la tanto decantata “giustizia sociale” di chi si riempie la bocca di queste “belle” parole?

Insomma, l’ascensore sociale (come va di moda definire la possibilità per tutti di innalzarsi e realizzare i propri sogni) è destinato a bloccarsi per sempre al piano terra.

Salario Minimo Salario Finto

In Parlamento si sta discutendo, in questi giorni, di un disegno di legge con cui si vorrebbe introdurre un salario minimo. Una proposta che, nel corso degli ultimi anni, è stata avanzata dalla quasi totalità dei partiti che occupano l’arco costituzionale e su cui c’è, dunque, un consenso diffuso, sia a destra che a sinistra. Ma se migliorare le condizioni salariali dei lavoratori è così semplice, come mai non ci abbiamo mai pensato prima?

Evidentemente perché non è poi così semplice, come viene propagandato dai politici e dagli opinionisti.

Cerchiamo di capire nel dettaglio quali sono i problemi. Il più evidente è che (secondo la teoria generale dell’economia) nel momento in cui le imprese vengono obbligate a pagare di più i propri dipendenti, si ha un aggravio sui costi che è immediatamente trasferito sia sui prezzi di ciò che si vende, sia sul profitto delle imprese.

Quindi, si creano difficoltà economiche sia per i consumatori (tra cui figurano anche, e proprio, i dipendenti stessi delle imprese) che si ritrovano a dover comprare beni a prezzi più alti rispetto a prima, che per le imprese stesse, che si trovano a guadagnare di meno e quindi ad avere meno possibilità di compiere nuovi investimenti o assumere più dipendenti. Insomma, ci perdono tutti!

Ma non è vero! (dicono). I lavoratori ora hanno più soldi, dunque ci hanno guadagnato! Ma non funziona proprio così: è vero che guadagnano di più, ma se nel contempo sono aumentati anche il valore dei beni che prima acquistavano a minor prezzo, la loro situazione non cambia! Si torna al punto di partenza, anzi, come vedremo, in una situazione pure peggiore rispetto a quella iniziale. Perché?

Perché fissando un salario minimo, per legge, si tagliano fuori dal mercato del lavoro “legale” tutte quelle persone il cui lavoro – per diversi motivi (istruzione, formazione, fascia di età,…) – vale meno di quello che è il minimo fissato. Tutte queste persone avranno molta più difficoltà a trovare lavoro – specialmente in un Paese come l’Italia, dove già ora trovarlo è una “mission impossible”. Ma non solo, poiché a questa larga platea di persone si aggiungeranno coloro che, per evitare maggiori costi per le imprese, saranno licenziati.

E, attenzione, perché se il salario minimo è fissato arbitrariamente troppo in alto, alle aziende converrà investire in automazione e lasciare quindi a casa ancora più dipendenti (si veda la sostituzione di lavoratori con i totem, come potete vedere quando andate nei fast food dopo l’ennesima manifestazione per i diritti dei lavoratori).

Parlando in termini più accademici, il governo crea – attraverso l’introduzione del salario minimo – un monopolio che esclude dal mercato la concorrenza dei lavoratori meno specializzati o meno fortunati, che sarebbero in grado di fornire il proprio contributo lavorativo solo ad un prezzo minore rispetto a quello imposto dal monopolio legale.

Non bisogna dimenticare, infatti, che, sebbene l’opinione pubblica non lo abbia mai realmente accettato, il mercato del lavoro funziona come tutti gli altri mercati: ci sono una domanda ed un’offerta che, senza interferenze, oscillano continuamente cercando un proprio equilibrio. L’introduzione di un salario minimo diminuisce la domanda di lavoro (da parte delle aziende) e aumenta irrimediabilmente l’offerta di lavoro (da parte della popolazione) senza creare alcun equilibrio e con le ovvie conseguenze negative supra descritte.

Conseguenze che non si concludono qui: per combattere la disoccupazione che egli stesso ha creato, il Governo dovrà aumentare le prestazioni sociali, quali sussidi di disoccupazione o redditi di cittadinanza assortiti, andando ad aumentare la spesa pubblica e, di conseguenza, il debito e/o la pressione fiscale, per non parlare della dipendenza dallo Stato di una sempre maggiore fetta della popolazione.

Una prova empirica di ciò che sosteniamo viene dalla Città di New York dove, negli ultimi mesi, l’introduzione di un salario minimo ha provocato la recessione del settore ristorativo: si lavora per meno ore, tanti dipendenti sono stati licenziati ed il prezzo dei pasti è aumentato notevolmente, danneggiando maggiormente le classi dei meno abbienti. Come dice il proverbio: “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”… e la politica ne è piena.

Ciò che manca disperatamente è un Frédéric Bastiat che ci ricordi che ogni azione ha due conseguenze: “ciò che si vede e ciò che non si vede”. Detta più tecnicamente, bisogna saper valutare le conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali (l’eterogenesi dei fini).

L’unico modo sano per aumentare i salari è far sì che più persone abbiano accesso ad un lavoro – eliminando barriere come il “contratto collettivo nazionale”, le certificazioni, i patentini e le iscrizioni ad albi vari, oltre a superare la rigidità contrattuale – e che le imprese aumentino la loro produttività – e possono farlo solo se le si lascia libere di conseguire più profitti.

Ma i governi ed i sindacati italiani loro amici, negli ultimi 35 anni, hanno fatto tutto il possibile per ottenere l’effetto contrario e, purtroppo, difficilmente nel prossimo futuro ci sarà chi vorrà fare qualcosa per ribaltare questa situazione. Anche perché significherebbe diminuire di molto l’intervento statale nell’economia, un’idea spesso avversata anche da una buona maggioranza dell’opinione pubblica. Ma la strada per migliorare la nostra situazione economica passa solo dalla libertà, nostra e di chi ci circonda.