I campi di detenzione cinesi
I campi di concentramento non sono solo un lontano ricordo del XX secolo. Sappiamo che furono utilizzati dai sovietici e dai nazisti, provocando milioni di morti. Sappiamo anche che, durante la seconda guerra mondiale, persino negli USA, si confinarono i cittadini di origine giapponese in campi simili. Ancora oggi, purtroppo, ci sono Paesi che li utilizzano, come Corea del Nord e Cina. Oggi come allora, nel mondo occidentale c’è chi nega, ma soprattutto chi, pur essendo a conoscenza del fenomeno, non ne discute.
In questo post vogliamo affrontare, nello specifico, il caso cinese. Si sa che ormai da anni, se non da decenni, la Cina sta violando i più semplici diritti umani dei Tibetani, in Tibet, e degli Uiguri (etnia turcofona di religione musulmana), nello Xinjiang. Sappiamo con sicurezza (fonte) che, almeno dal 2014, quest’ultima popolazione viene imprigionata in modo indiscriminato in campi di detenzione e rieducazione.
E di recente, purtroppo, la situazione non ha fatto che peggiorare. A farne le spese ora, oltre a Buddisti e Musulmani sono anche i Cristiani, sia Cattolici che Protestanti. L’obiettivo, dichiarato dallo stesso governo cinese, di queste misure, è la cancellazione delle varie identità etniche e culturali delle popolazioni che si ritrovano sotto il controllo cinese. Il governo cinese ha sempre cercato di combattere le loro antiche spinte indipendentiste, che portarono a repressioni già nell’epoca di Mao Zedong e che si sono inasprite negli ultimi vent’anni, da quando il governo ha presentato la campagna contro la minoranze come una lotta al terrorismo. Per fare un esempio, nel più violento scontro avvenuto finora tra polizia e uiguri, durante una protesta indipendentista nel 2009, morirono circa 200 persone.
La regione dello Xinjiang, in particolare, è uno dei posti più sorvegliati al mondo: gli abitanti sono sottoposti a controlli di polizia quotidiani, a procedure di riconoscimento facciale e a intercettazioni telefoniche di massa. Queste forme di oppressione, ovviamente, hanno deteriorato il tessuto sociale locale, provocando profonde ferite nelle comunità e nelle famiglie.
Per capire quante somiglianze ci siano tra questi campi e quelli dei regimi totalitari del secolo scorso, si può analizzare il coraggioso racconto di Abdusalam Muhemet, un detenuto intervistato dal New York Times, rinchiuso per aver recitato un verso del Corano a un funerale. Nel suo campo veniva portato ogni mattina nel cortile insieme agli altri detenuti, talvolta con schiaffi e spinte. Qui venivano costretti a cantare canti patriottici cinesi, e a chi dimenticava le parole veniva negata la colazione. Sempre riuniti, erano sottoposti a lezioni in cui i funzionari cinesi gli intimavano di rinunciare al credo e all’indipendentismo. Muhemet rimase in tutto più di due mesi nel campo, dopo averne passati sette in una prigione normale e senza mai essere formalmente incriminato per nessun reato. Alcuni ex detenuti hanno raccontato al Washington Post di aver subito delle torture come il waterboarding e la cosiddetta “panca della tigre”, sulla quale gli interrogati vengono fatti sedere in una posizione molto dolorosa. C’è chi ha parlato anche di privazione del sonno e isolamento.
Ci sono posti, come la città di Kashgar, dove i detenuti nei campi speciali sono così tanti che il governo ha dovuto aumentare i posti nei convitti, per ospitare i bambini separati dai genitori. Ne sono stati costruiti 18 soltanto nel 2017, secondo la stampa locale. Questo è uno degli strumenti più efficaci sfruttati dal governo cinese: separando i bambini dalle famiglie li si allontana dalla loro cultura, e in questo modo il governo potrebbe arrivare ad assimilarli a quella considerata dall’autorità centrale come autenticamente cinese, rimodellando l’identità di un’intera generazione.
Oltre ai campi, le autorità cinesi stanno mettendo in atto anche altre modalità per “cancellare” le varie identità e religioni. Per esempio, nelle regioni di Ningxia Hui e Gansu, che ospitano un’altra corrente musulmana, hanno eliminato qualsiasi simbolo religioso presente per le strade o, addirittura, nelle moschee. Nelle regioni più orientali, arrivando fino alla capitale Pechino, a diverse congregazioni cristiane è stato vietato l’accesso alle chiese, mentre molti dei membri hanno dovuto subire interrogatori e detenzioni.
Nel 2015, commentando tale progetto, il presidente Xi Jinping aveva già affermato che lo scopo del governo è l’assoluto controllo sul credo e l’emergere di un’unica identità. E il premier cinese Li Keqiang ha, di recente, annunciato che queste politiche “religiose” cinesi continueranno ad essere applicate, fino al raggiungimento dell’obiettivo finale: la “cinesizzazione”.