Le conseguenze della centralizzazione: il down di Facebook

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Le conseguenze della centralizzazione: il down di Facebook

Jack Dorsey è meglio di Mark Zuckerberg, la Svizzera è meglio dell’Italia, Hayek è meglio di Keynes. No, non stiamo esponendo i nostri gusti. Stiamo commentando il “blackout” di Facebook, Instagram e Whatsapp, avvenuto la scorsa domenica. Tutti e tre questi social, infatti, sono di proprietà di Mark Zuckerberg dal 2014 e sono, a livello informatico, collegati l’uno all’altro; come nei “down” precedenti, a quello di un social è seguito a cascata quello degli altri due. Questo esempio ci introduce alla considerazione che vogliamo fare: ovvero, sono le conseguenze della centralizzazione, in questo caso imprenditoriale, ma che può essere utilizzato per descrivere le caratteristiche della centralizzazione di potere, politica ed amministrativa.

Non fraintendeteci: non vogliamo accodarci ai deliri anti-capitalistici di chi la pensa come la Senatrice Dem americana Elizabeth Warren. Non vogliamo ovviamente sostenere che le grandi aziende vadano scorporate: il Mercato, al contrario della politica, sa premiare i migliori, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda. Vogliamo limitare il nostro discorso all’ambito politico, dove gli incentivi dell’economia di mercato mancano e dove, come illustreremo a breve, ‘Small is Better’.

Dal mancato funzionamento dei tre social di Zuckerberg ci hanno guadagnato Twitter e il suo fondatore Jack Dorsey, in visibilità e in incremento di utenti. Non è, tra l’altro, la prima volta che questi ‘blackout’ si verificano: volta per volta – per quanto sia difficile convincere burocrati come Margrethe Vestager (Commissario europeo per la “concorrenza”) – Facebook, Instagram e Whatsapp perderanno utenti e credibilità, vista la maggiore fragilità che si è manifestata rispetto ai concorrenti. 

Se, dunque, la centralizzazione può essere dannosa nella competizione tra imprese, figurarsi quanto lo può essere quando si tratta di amministrare una nazione (e le sue finanze). Ed è qui che entrano in gioco la Svizzera e Friedrich von Hayek, da una parte, e l’Italia e John Maynard Keynes, dall’altra. Cioè, da un lato abbiamo ‘decentralizzazione’ (politica e amministrativa) e “spontaneous order” derivato dalle azioni individuali, mentre dall’altro abbiamo, appunto, la ‘centralizzazione’ (anche se qualcuno vorrebbe farci credere essere minore di quella che in realtà è) e l’interventismo politico.

Ora, non sta a noi, immersi negli studi universitari o appena freschi di laurea, dare giudizi oggettivi su questioni politiche ed economiche, dibattute per decenni da persone ben più competenti e preparate di noi, ma l’economia (intesa come scienza dell’azione umana, non come creazione e libera interpretazione di modelli statici da adattare a un contesto dinamico) – checché ne vogliano i detrattori – è una scienza esatta e, per quanto riguarda la politica, qualche migliaio di anni di storia umana sono sufficienti per trarre qualche generica conclusione. Ora, senza andare ad indagare le vicissitudini delle ‘Poleis greche’ e dell’impero Persiano, possiamo limitarci ad analizzare le differenze tra lo sviluppo elvetico e quello italiano, da 150 anni (circa) a questa parte, così come i risultati raggiunti dai singoli imprenditori – attori in quel grande insieme “caotico” chiamato mercato – e la pletora di burocrati e legislatori – guide illuminate del più ordinato (almeno a detta dei supporters) ‘Stato imprenditore’ (o ‘innovatore’, per dirla “alla Mazzucato”).

In Svizzera la maggior parte delle decisioni riguardanti la vita dei cittadini sono prese a livello comunale e cantonale, contesti in cui ogni individuo ha la possibilità di far valere la propria opinione e di veder rispettata la propria preferenza. Anche dal punto di vista della gestione di entrate e uscite pubbliche, l’autonomia è maggiore a livello comunale, poi cantonale e solo, infine, a livello federale (che raccoglie, e di conseguenza spende, solo il 4% dei contributi). Quest’organizzazione ha non solo dato alla Svizzera la possibilità di far coesistere pacificamente nello stesso Paese 4 diverse lingue, numerose religioni ed etnie (che altrove vivono situazioni di disagio, quando non di aperto conflitto), ma anche una delle ricchezze pro-capite più elevate del pianeta, nonostante la quasi totale mancanza di materie prime (che, invece, fanno la fortuna della Norvegia e del suo prodigioso Walfare State, ad esempio), così come una delle economie più competitive e produttive al mondo.

Al contrario, in Italia, tutte le decisioni vengono prese a Roma: alle Regioni, nel corso dei decenni è stata concessa – male – qualche briciola, mentre, per quanto riguarda i Comuni, la parola “autonomia” compare solo nei libri di storia, nel capitolo sul Rinascimento (quell’epoca di cui siamo tanti orgogliosi come italiani, ma che ci dimentichiamo aver visto – guarda caso – tutto il contrario di quella Repubblica “una e indivisibile” che è ora l’Italia). Di conseguenza, la qualità di queste decisioni è insufficiente e, quando creano un danno (leggasi: quasi sempre), questo ha conseguenze enormi e costi spaventosi per milioni di persone. I paragoni sulla ricchezza pro-capite e la produttività sono, probabilmente, ancora più impietosi.

L’ultimo confronto, si diceva, è quello tra Hayek e Keynes (o la Mazzucato, anche se non pensiamo possa reggere il confronto con il primo, a differenza dell’economista inglese), cioè tra il ‘decentralizzato mercato’ – nel senso di insieme di singole azioni individuali – e il potere dell’autorità centrale – nel senso di intervento di politici, burocrati e tecnici, nel funzionamento dell’economia. Se abbiamo l’acqua calda in bagno, l’elettricità, un tetto sopra la testa ed, in generale, qualunque prodotto o servizio che ci consenta di vivere degnamente e di soddisfare i nostri desideri, lo dobbiamo solo all’inventiva di singole persone che hanno rischiato ed investito per diffondere le proprie idee e che, alla fine, hanno trionfato. 

Diversamente, se andiamo a vedere quei casi, presenti tutt’oggi, in cui qualche burocrate “illuminato” ha deciso di investire (soldi non suoi, ovviamente) in qualche progetto “innovativo”, o più semplicemente di affidare alla macchina statale la fornitura di determinati prodotti o servizi preesistenti, i risultati sono stati, e lo sono tutt’ora, “diversamente rosei”. 

Nemmeno Internet, l’Argomento per eccellenza della Mazzucato e dei moderni teorici della centralizzazione, è riconducibile a un qualche progetto statale, come ha ben dimostrato Alberto Mingardi, nel suo ultimo libro “La verità, vi prego, sul neoliberismo”.

Qui non si vuole certo fare affidamento dogmatico alla decentralizzazione e al mercato. Siamo ben consapevoli che siamo tutti, nessuno escluso, esseri umani e pertanto fallibili. Ed è proprio per questo motivo che, messi di fronte a diverse alternative, siamo in dovere di scegliere quelle meno dannose.

Anche in un’organizzazione politica estremamente decentralizzata, così come nell’economia più libera che possiamo immaginare, ci sono ovviamente problemi, fallimenti, costi che qualcuno deve sostenere, ma – per quanto “singolarmente” grossi possano essere – essi sono esponenzialmente minori rispetto ai problemi, ai fallimenti ed ai costi che ci troviamo ad affrontare in Stati centralizzati e in economie iper-regolate, come la nostra.

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